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Habemus Lav Diaz! Dopo notti insonni trascorse incollati al piccolo schermo per vedere Fuori Orario – Cose (mai) viste (il programma di cine-rarità che porta la firma di Enrico Ghezzi, primo domicilio italiano di diffusione delle opere del regista filippino), maratone davanti i grandi schermi della Mostra del Cinema di Venezia e del Festival di Torino (come dimenticare le 9 ore di Death in the Land of Encantos al Lido nel 2007?), cacce al tesoro nei meandri di Internet per sopperire alle censure del mercato, finalmente il cinema di uno dei cineasti più importanti in circolazione vede la luce del proiettore delle sale italiane. Merito della collaborazione tra Malastradafilm e Zomia, due case di distribuzione indipendenti che hanno puntato su Lav Diaz ben prima della vittoria del Leone d’oro con The Woman Who Left alla recente Mostra del Cinema di Venezia.
Scelta azzeccata quella di battezzare il pubblico italiano con Figli dell’uragano (Storm Children. Book One) (primo film di Lav Diaz a godere di una distribuzione sul nostro territorio, non solo al cinema ma anche in Internet con un servizio di streaming e download, previo pagamento di una cifra irrisoria: maggiori dettagli qui). Un documentario che, pur rinunciando a una delle peculiarità del regista filippino, quella della durata monstre (unico motivo di interesse per certa stampa nazionale…), racchiude tutti i pregi di un autore fuori dagli schemi.
Il film si apre con le immagini in campo lungo che indugiano su una terribile tempesta lungo una zona costiera mentre il cielo viene inghiottito dalla notte, poi le acque di un fiume in piena, carico di detriti di ogni genere, accompagnano lo sguardo verso le strade inondate in pieno giorno di un centro abitato. Sono gli attimi successivi della furia scatenata dal tifone Yolanda, che portò morte e distruzione nel novembre del 2013 nelle Filippine. Siamo in uno dei cosiddetti baranggay (contrade, piccoli villaggi) di Tacloban, una delle città più colpite dal tifone. Qui un gruppo di bambini dà l’impressione di essersi dimenticato per un attimo della devastazione che si è abbattuta intorno a loro: l’acqua che ha ricoperto le strade, distrutto case, ucciso persone, diventa motivo di gioco e divertimento. Lav Diaz segue i piccoli con la macchina da presa nel corso delle loro giornate a piedi nudi tra le macerie: li riprende mentre giocano, durante la ricerca di oggetti da vendere ai rigattieri per guadagnare qualcosa con cui sfamarsi, quando parlano delle conseguenze del tifone sulle loro famiglie.
Il cinema di Lav Diaz, sin dal momento in cui partono le prime immagini dei suoi film, sembra subito una questione di tempo. Tempo che accada qualcosa: ti perdi nella profondità e staticità delle sue inquadrature e pensi che quel suo modo placido di raccontare le cose sia sempre sul punto di deflagrare in una scena madre. Ogni volta è un piacevole inganno che si ripete, perché in realtà è il momento dell’attesa il valore su cui si fonda il credo cinematografico del regista. C’è una scena bellissima del film che esplicita l’idea di un cinema continuamente in fieri forgiato dall’arte della dilatazione, in cui ciò che conta non è il punto di arrivo, la meta, ma il percorso, il viaggio stesso che cambia la percezione in chi guarda: due bambini scavano, uno a mani nude, l’altro con l’aiuto di un bastone, alla ricerca di qualcosa in un terreno sabbioso ricoperto da detriti, smuovendo e sollevando in continuazione una zolla di terra, in modo così insistente e reiterato da farci immaginare che al di sotto di essa possa celarsi qualcosa di valore. Alla fine scopriamo che non è così: il loro ‘bottino’ sarà solo qualche rottame forse da vendere ai rigattieri.
Ecco, in quella sequenza apparentemente banale, in quei minuti in cui seguiamo ogni piccolo gesto dei due bambini, Lav Diaz ci rende partecipi della realtà nel suo farsi, cambiando la consapevolezza di quello che stiamo guardando: trasformando quella che sembrava una scena quasi carica di una suspense sempre sul punto di sorprenderci con un elemento inaspettato in una pura testimonianza capace di svelare nei piccoli dettagli l’intima natura di un’umanità aggrappata alla vita. Con il suo stile rigoroso, fatto di inquadrature che sembrano rudimentali riprese rubate alla quotidianità ma che invece mostrano un gusto geometrico di elevata bellezza formale, il regista sviscera la capacità di continuare a vivere di chi non smette di pensare al domani e cerca di adeguarsi all’emergenza nonostante tutto intorno assuma le forme di uno scenario apocalittico, con case ridotte ad accumuli di legno, fango e rifiuti, navi arenate sulla riva che disegnano un paesaggio quasi metafisico, strade sommerse dall’acqua. Un contrasto forte, tragico e annichilente tra lo spirito di adattamento e la dimensione di smarrimento della catastrofe che trova la massima espressione nel finale struggente, quando vediamo i bambini che come piccole formiche si appropriano delle navi mercantili incagliate vicino al loro villaggio, per usarle come trampolino di lancio con cui fare tuffi spettacolari e trovare un breve momento di evasione dalla realtà.
Proustianamente, Lav Diaz crede che il cinema sia un viaggio verso la scoperta che non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi. Allo stesso modo Figli dell’uragano è un viaggio in un universo inesplorato attraverso un cinema senza mediazioni, libero, sincero e anticonvenzionale, impegnativo nella fruizione ma visivamente folgorante, capace come pochi di riempirti gli occhi di un’esperienza inusuale a contatto con la tragicità e lo splendore del vero.