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Nessun Presidente prima di Barack Obama si è dovuto confrontare così diffusamente con internet e le dinamiche dell’informazione da essa generate. Questi ultimi otto anni, per esempio, sono stati quelli della definitiva ascesa dei social media come fenomeni di massa e planetari, quelli dell’acuirsi della crisi dei modelli di business del giornalismo, quelli dell’esplosione del fenomeno WikiLeaks e della sorveglianza digitale come standard anche per le democrazie. Questi elementi hanno avuto un impatto cruciale nel rapporto tra giornalismo e potere e gli Usa, ovviamente, non hanno fatto differenza. Con ogni probabilità, Obama anche ricordato come il politico più mediatico e digitale della storia.
Questi otto anni sono stati, però, anche il terreno di nuove tensioni che hanno di nuovo avuto internet come banco di prova: tra trasparenza e segreto, ad esempio, o tra libera circolazione delle informazioni digitali e censura e tra attivismo e controllo. Spesso l’azione dell’amministrazione Obama ha lanciato segnali molto forti in relazione a questi temi e, a detta di diversi osservatori, il suo operato ha deluso le aspettative in fatto di trasparenza e accountability. Con l’aiuto di tre esperti americani abbiamo affrontato queste questioni, cercando di fare un bilancio sugli otto anni di Obama alla Casa Bianca in relazione a questi temi e al suo rapporto con il giornalismo e l’informazione nel complesso.
Il quadro generale
Nel 2009, gli Usa si posizionavano al ventesimo posto nell’annuale ranking della libertà di stampa di Reporters Without Borders. Nell’edizione 2016 della medesima graduatoria, invece, si fermano al 41esimo. Nel 2014, inoltre, in seguito alle rivelazioni di Snowden sulla sorveglianza di massa, gli Usa sono finiti anche nella graduatoria “Enemies of the Internet”, curata dalla medesima Ong. Quali le ragioni di questi risultati? Alla relazione tra l’Amministrazione Obama e il giornalismo, il Committee to Protect Journalist (CPJ) aveva dedicato un report già nel 2013 in cui l’organizzazione statunitense lamentava come le azioni della Casa Bianca avessero interferito con “il flusso di informazioni di grande interesse pubblico”.
Secondo Joel Simon, Executive Director del Cpj, intervistato da Wired per questo articolo, “uno dei giornalisti che ha partecipato al nostro report ci ha fatto notare come di norma ogni amministrazione sia in questo senso peggiore della precedente e questo è indubbiamente vero. Sì, quella di Obama è stata la peggiore della storia degli Stati Uniti. Questo non perché Obama abbia necessariamente un’idea più stringente della libertà dei media dei suoi predecessori, ma piuttosto perché la tecnologia ha concesso al governo di aggirare i media, e Obama ne ha approfittato”. Il report del Cpj, tra le altre cose, lamentava ad esempio un’eccessiva chiusura della Casa Bianca nei confronti dei giornalisti e una forte propensione per la segretezza o, al contrario, al bypassare la stampa in favore dei social media per comunicare con i cittadini.
Se questi elementi sono in buona parte figli della nostra epoca, non sono mancati, però, episodi estremi, nei confronti del giornalismo. Uno, in particolare, ha riguardato James Risen, giornalista Premio Pulitzer del New York Times che ha rischiato il carcere pur di non rivelare il nome di una sua fonte in tribunale in un caso di whistleblowing. “Il tentativo di costringere James Risen a rivelare le su fonti non è senza precedenti, purtroppo”, spiega Joel Simon, “la questione fondamentale qui è l’assenza di una legge federale che protegga i giornalisti in questi casi. Se citati in giudizio in un caso federale, infatti, i reporter possono essere costretti a testimoniare. Considero il caso Risen come un attacco deliberato contro la libertà di stampa, ma per quanto ritengo l’amministrazione Obama responsabile di ciò, di certo non si è trattato di una decisione personale del Presidente. Di sicuro, il caso Risen è stato senza dubbio parte di un pattern di persecuzioni aggressive che avevano whistleblower e leaker come obiettivi”.
La guerra al whistleblowing
Proprio sul fronte del whistleblowing, l’Amministrazione Obama ha reagito in modi molto forti e severi nei confronti di quelle persone che hanno denunciato alla stampa casi di abusi di diverso tipo. In particolare, l’Espionage Act è diventato uno strumento giuridico utilizzato frequentemente per colpire le fonti giornalistiche. La legge, promulgata nel 1917 per colpire le spie e i cospiratori della Prima Guerra mondiale è stata utilizzata nove volte negli anni di Obama contro fonti giornalistiche. Un numero tre volte più alto rispetto a tutte le Presidenze precedenti messe insieme. Tra queste nove persone ci sono anche Edward Snowden, il whistleblower cui dobbiamo il Datagate e Chelsea Manning, la fonte della maggiori rivelazioni di WikiLeaks a partire dal 2010.
“Il contesto più importante in cui inquadrare questo fenomeno non è il numero complessivo di indagini, che sono relativamente poche. Questo perché ci sono letteralmente migliaia di leak di materiali confidenziali ogni anno o di materiali top secret”, spiega a Wired Ben Wizner dell’American Civil Liberties Union, avvocato che rappresenta Edward Snowden, “se sei un senior official puoi far uscire i documenti militari più critici, ma se non hai potere, come Snowden, la situazione è diversa. Dobbiamo ricordarci che l’Espionage Act è talmente ampio che potrebbe anche essere utilizzato con il giornalista, non solo contro la persona che ha fornito le informazioni. Non c’è mai stata un’indagine, nella Storia degli Usa, contro un giornalista per aver pubblicato documenti confidenziali. C’è una indagine nei confronti di WikiLeaks, ma si tratta del primo tentativo serio di formulare della accuse contro un editore”.
Il trattamento riservato a ufficiali di primo livello, compreso l’ex Direttore della Cia David Petraeus, che rivelò informazioni riservate alla sua biografia (e mentì a riguardo all’Fbi) senza andare incontro a pene detentive, è stato molto diverso rispetto a quanto accaduto, ad esempio, a Chelsea Manning (condannata a 35 anni di carcere), Snowden o John Kiriakou, ex analista Cia che parlò delle torture dell’agenzia negli anni di Bush a un reporter e come conseguenza è stato condannato 30 anni di carcere. Tutto questo avveniva un anno prima della pubblicazione del report ufficiale della Cia.
L’Espionage Act, quando applicato a fonti giornalistiche è particolarmente inquietante, per via della sua ampiezza e severità e per il fatto di sostanzialmente impedire all’imputato di spiegare le proprie ragioni in tribunale: “per via dell’Espionage Act, Snowden non potrebbe spiegare a una giuria perché ha fatto quello che ha fatto. Nel mondo esiste un generale consenso, anche tra persone che non sono necessariamente d’accordo con Snowden, sul fatto che vi sia stato un dibattito storico e globale come risultato delle sue rivelazioni mentre, qui negli Usa, abbiamo avuto alcune tra le riforme più significative di questa generazione”, spiega ancora Wizner.
“Niente di tutto questo sarebbe ammissibile o riferibile durante un processo ai sensi dell’Espionage Act. Tutto questo sarebbe escluso per il semplice fatto che Snowden ha dato delle informazioni a qualcuno che non era previsto le ricevesse, in questo caso i giornalisti. Snowden andrebbe quindi a processo ma solo per la sua punizione. In teoria potrebbe ricevere 10 anni per ogni violazione che gli viene contestata e ogni documento dato ai giornalisti potrebbe essere considerato una singola violazione”, continua Wizner.
Per quanto riguarda WikiLeaks, che proprio negli anni di Obama ha pubblicato le sue rivelazioni maggiori, quello che è noto è che vi è un’indagine in corso da parte del Dipartimento di Giustizia e dell’Fbi nei confronti dell’organizzazione di Julian Assange per via delle sue pubblicazioni. L’esistenza di questa inchiesta è stata confermata in diverse occasioni e documenti resi noti nel 2015 hanno dimostrato come questa sia attualmente ancora in corso. Questa indagine è rivolta esclusivamente alle attività giornalistiche di WikiLeaks e non è connessa con la situazione legale di Julian Assange (che non è comunque formalmente accusato di alcun crimine, nda) in relazione ai presunti reati sessuali in Svezia.
Giornalisti e le loro fonti sotto sorveglianza
La guerra contro i whistleblower, comunque, è a sua volta strettamente legata alle attività di sorveglianza perpetuate dall’Amministrazione Obama. Al di là di quanto emerso sui programmi della Nsa grazie a Snowden, negli ultimi otto anni non sono mancati casi di intercettazione mirata delle comunicazioni dei giornalisti. Il caso forse più eclatante è stato forse quello che coinvolse le linee telefoniche di oltre 20 linee telefoniche della Associated Press, messe sotto sorveglianza per due mesi nel 2012. L’operazione, coordinata dal Dipartimento di Giustizia, seguiva un’inchiesta pubblicata da Ap su un attacco terroristico in Yemen e potenzialmente potrebbe aver esposto le fonti dei reporter dell’agenzia. La Casa Bianca aveva negato di essere a conoscenza o coinvolta nell’indagine del Dipartimento, ma il caso pone certamente diversi quesiti sulla confidenzialità che i giornalisti possono garantire alle loro fonti riservate.
“Senza anonimato e confidenzialità la capacità delle persone di comunicare liberamente è compromessa. I giornalisti sono particolarmente vulnerabili perché la possibilità di proteggere le fonti è al centro del giornalismo investigativo”, commenta Joel Simon del Committee to Protect Journalism, “gli studi e le esperienze personali mostrano come i giornalisti temano di essere sotto sorveglianza e comunicano di conseguenza con gli accorgimenti necessari. Le comunicazioni tra Glenn Greenwald e Snowden, ad esempio, o quelle tra Greenwald e il Guardian sono un buon esempio. Il giornale prese precauzioni straordinarie in occasione del caso Nsa al fine di garantire la dovuta sicurezza al suo staff, il quale non si è comunque sentito del tutto al sicuro”.
Come è noto, Snowden dovette aspettare mesi per riuscire a comunicare efficacemente con Glenn Greenwald e in modo sicuro e con le salvaguardie offerte dalla crittografia, un termine che proprio le rivelazioni del whistleblower della Nsa ha portato in cima alle priorità dei reporter investigativi americani, come ha confermato anche uno studio del Pew Research Center del 2015. Sempre nel 2013 il giornalista di Fox News James Rosen venne invece indagato come “co-cospiratore” in un caso di potenziale whistleblowing in cui venne coinvolto (ai sensi, di nuovo dell’Espionage Act), Stephen Jin-Woo Kim, un adviser del governo, che avrebbe rivelato a Rosen dettagli riservati di un potenziale test nucelare nord-coreano. Anche in questo caso le visite di Rosen al Dipartimento di Stato furono tracciate, insieme alle sue comunicazioni online e telefoniche.
Edward Snowden vive esiliato in Russia dall’estate del 2013. A settembre 2016, le Ong Aclu, Amnesty International e Human Rights Watch, sulla scia dell’interesse mediatico suscitato dal film di Oliver Stone dedicato al whistleblower, hanno lanciato la campagna #PardonSnowden per chiedere a Obama di utilizzare lo strumento del perdono presidenziale per consentire a Snowden di rientrare negli Usa: “lo scenario migliore è che un Presidente che non deve più competere per essere rieletto possa agire sulla base della sua coscienza e essere d’accordo con noi nel dire che questo è uno di quei casi per i quali il potere di perdonare esiste. Certamente Snowden ha infranto la legge, ma per ragioni specifiche e per il beneficio del pubblico”, commenta Ben Wizner a questo proposito.
“L’amministrazione piu trasparente della storia”
Barack Obama ha puntato molto sul tema della trasparenza nell’indirizzare le scelte della sua amministrazione e nel 2013, inoltre, definì la sua come la più trasparente amministrazione della storia degli Stati Uniti d’America. I risultati effettivi del suo operato, negli ultimi 8 anni, ad ogni modo, raccontano una storia un po’ diversa. Se già gli esempi di sorveglianza, lotta totale contro le fughe di notizie nell’interesse pubblico e l’ossessione per la segretezza dimostrano nei fatti l’atteggiamento concreto del governo statunitense negli ultimi anni, anche i dati relativi alle scelte in fatto di trasparenza illustrano una situazione più complessa.
Diversi giornalisti autorevoli, tra cui Brian Stelter della Cnn e la public editor del Washington Post Margaret Sullivan, hanno criticato aspramente Obama da questo punto di vista, puntando il dito contro la generale ostilità della Casa Bianca nei confronti della stampa e un atteggiamento eccessivamente protettivo dal punto di vista dell’informazione e delle richieste di accesso pubblico a documenti tramite il Freedom of Information Act. La Sunlight Foundation, una delle maggiori Ong Usa a occuparsi di open data e trasparenza, ha analizzato l’operato di Obama in questo senso in un report analizzando la questione da più punti di vista, a cominciare proprio dalla questione Foia.
Un’analisi di Associated Press, pubblicata a maggio 2016, si legge come “le persone che hanno fatto domanda per documenti secondo la legge Foia hanno ricevuto documenti censurati o nulla nel 77% dei casi (596095 in totale, nda). Nel primo anno di Obama come Presidente quel dato riguardava solo il 65% delle richieste”. In 129825 casi, invece, la risposta è stata l’impossibilità di trovare documenti. Ma bastano questi numeri per giudicare la trasparenza di Obama?
“Come abbiamo osservato, l’amministrazione Obama ha ricevuto il numero più alto di richieste Foia nella storia e, allo stesso tempo, ha fatto registrare il più alto numero di rifiuti”, spiega a Wired Alex Howard, Senior Analyst della Sunlight Foundation, “ad ogni modo, dato che le ricerche precedenti dimostrano come la maggioranza di queste richieste provengono da entità commerciali, usare questa metrica per un’analisi complessiva è imperfetto. Anche la crescita in fatto di rilasci parziali riflette l’utilizzo più frequente delle due eccezioni più comuni dello statuto Foia: le invasioni della privacy personale senza mandati”. “Noi pensiamo che il lascito di Obama in fatto di trasparenza debba essere valutato alla luce di lenti più ampie e non solo in base alle richieste Foia”, spiega Howard.
Restando sul tema del Foia, la scorsa estate è stata approvato il Foia Improvement Act of 2016, una riforma che ha rinnovato e facilitato l’approccio all’accesso ai documenti pubblici negli Usa. Per quanto la riforma sia un netto passo avanti, come hanno commentato la stessa Sunlight Foundation e Jason Leopold, il giornalista Foia Machine di Vice News, il percorso di riforma non è stato semplice e, paradossalmente poco trasparente. Fu proprio una richiesta Foia avanzata dalla Freedom of the Press Foundaton – e un’inchiesta conseguente di Leopold – a dimostrare come l’avanzata di un altro Act sul tema – e più onnicomprensivo – fosse stata ostacolato e rallentato dalla stessa Amministrazione Obama e dal Dipartimento di Giustizia.
“I documenti ottenuti dalla Freedom of the Press Foundation dimostrano che il Dipartimento di Giustizia abbia fatto lobbying attivo nei confronti del Congresso contro la trasformazione in legge delle policy di Obama in fatto di Foia, compresa quella ‘presunzione di openess’ compresa nel memorandum del 2009. Al momento, non abbiamo ancora visto una dichiarazione pubblica del Dipartimento di Giustizia che spieghi le sue azioni o la sua opposizione oltre i soliti punti relativi ai costi, le difficoltà o sull’impatto della legislazione”, commenta a questo proposito Alex Howard.
Il Foia, comunque, non deve essere l’unica cartina di tornasole per giudicare la trasparenza delle due amministrazioni Obama: nel 2009, ad esempio, con un ordine esecutivo è stato creato il National Declassification Center, “che ha tolto il segreto a milioni di documenti, nonostante ne rimangano ancora centinaia di milioni”, commenta Alex Howard. Allo stesso modo, la Federation of American Scientists, commentando i dati dell’ Information Security Oversight Office, ha fatto notare come la produzione di nuovi segreti nazionali sia diminuita sensibilmente nel corso degli ultimi anni, marcando così un segnale positivo nei confronti della overclassification, l’eccesso di segretezza negli archivi pubblici. Allo stesso modo, però, negli anni di Obama, come ha fatto notare il Washington Post, la pratica della derivative classification ha vissuto una fase di splendore: con questa pratica si generano nuove versioni di informazioni già esistenti e segrete affinché non possano essere considerate alla stregua di nuovi segreti.
Un aspetto su cui l’Amministrazione Obama ha invece certamente tradito le aspettative di trasparenza sono state le operazioni militari con i droni in, tra gli altri, territori dove non sono dichiarate guerre, come Somalia, Pakistan e Yemen. In queso caso, Obama ha sempre operato in un clima di sostanziale segreto e senza rilasciare stime e dettagli sugli attacchi o le vittime civili coinvolte. Solo la scorsa estate la Casa Bianca ha diffuso le sue stime, pubblicando dati molto ristretti, esclusivamente aggregati, poco chiari e in contrasto con quanto reso noto da diverse organizzazioni indipendenti nel corso degli ultimi anni, come il Bureau Of Investigative Journalism o la New America Foundation.
Nel complesso, quindi, i risultati di Obama in fatto di trasparenza sono stati ambivalenti: “l’amministrazione Obama ha fatto rilasci di dati online senza precedenti, con un impatto evidente su diversi settori della società”, commenta nuovamente Alex Howard, “ma il fallimento nel connettere la domanda di richieste Foia con queste attività ha diminuito gli obiettivi dell’amministrazione in fatto di open data. Allo stesso modo, i fallimenti in fatto di trasparenza proattiva sull’uso dei droni o sulla sorveglianza di massa hanno avuto a loro volta un impatto negativo sulla fiducia pubblica nei confronti di diverse altre iniziative di open government”.
Con le elezioni alle porte, sarà fondamentale osservare come si comporterà il prossimo Presidente. “Per quanto la situazione possa essere stata negativa sotto Obama, la prossima amministrazione sarà anche peggiore per la stampa”, commenta Joel Simon, “se Clinton dovesse essere eletta sarà certamente così, dato che la candidata democratica è ancora più chiusa e più diffidente nei confronti della stampa. Ovviamente, qualora fosse Trump a vincere, il problema sarebbe di una magnitudo completamente diversa”.
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