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C’era grande attesa per l’adattamento cinematografico del best seller La ragazza del treno, storia di una donna che tocca il fondo del barile dell’alcol e della solitudine per colpa di un uomo, e che a fatica riemerge attraverso una trama che flirta con il giallo tra presente e ricordi.
Sembrava una scelta appropriata che a dirigerlo fosse Tate Taylor che con Get On Up, l’assurdo e bellissimo film biografico su James Brown, aveva dimostrato di avere una certa creativa brutalità nel mettere in scena il presente e il passato senza differenze, mescolandoli ma tenendoli distinti al tempo stesso.
In La ragazza del treno (il film) c’è infatti un meccanismo che viene dritto dal cinema di Dario Argento: tutto ruota intorno a un dettaglio difficile da mettere a fuoco e che, come in L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo, viene ossessivamente ripassato alla moviola dalla mente della protagonista per cercare di comprendere cosa le sfugga.
Dal finestrino del treno che prende due volte al giorno, Rachel vede la casa in cui fino a circa un anno prima viveva la vita che rimpiange e in cui ora un’altra donna ama quello che era il suo uomo, di fatto vivendo la vita che credeva sua.
Il dettaglio argentiano scatta quando Rachel, passando con il treno come ogni giorno, vede questa donna che ha preso il suo posto sulla terrazza con un altro uomo, le cui fattezze non riesce a distinguere bene ma che capisce non essere il marito. Da qui inizia la sua persecuzione ai loro danni che poi è la ricostruzione del proprio passato, di cosa le è accaduto per farla diventare un’alcolizzata depressa da che era una donna felice.
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In teoria dovrebbe essere una storia di liberazione femminile dalle oppressioni maschili La ragazza del treno, la sua trama parla chiarissimo in questo senso, ma è abbastanza puerile quanto tutto ciò sia soppresso dalla maniera in cui la protagonista cerca di ottenere giustizia, andando cioè a riportare alla polizia un sospetto, un’infedeltà che crede di aver visto di nascosto nella vita delle persone che spia, praticamente un pettegolezzo.
È in piccolo il problema di tutto il film: avere un buono spunto contro il sessismo (una donna vessata e fiaccata dal non riuscire ad essere all’altezza dell’immagine che la società le impone) ma distruggerlo con atteggiamenti sessisti.
Dopo un attacco molto potente in cui la cittadina sul mare in cui tutto è ambientato è descritta come una fabbrica di mamme e bambini, con pregnante enfasi sul condizionamento sociale a partire dalle immagini (donne bionde, belle, con bambini sani guardati da una persona in difficoltà, con il volto tumefatto dall’alcol), La ragazza del treno diventa subito goffo nel suo triangolo tra tre donne diversamente sottomesse ad un uomo.
Ognuna esiste in funzione del suo rapporto con la maternità, chi è mamma, chi avrebbe voluto esserlo e chi lo sta per diventare suo malgrado. Ognuna ha nel medesimo uomo il fulcro del proprio malessere. Questa carrellata di bambini partoriti, da partorire e desiderati allora non è molto diversa da quell’immagine iniziale di una cittadina che pare avere nella maternità la sua unica funzione. Le donne sembrano esistere per quello soltanto.
Eppure non è nemmeno questa la componente più grave di questo fiacchissimo adattamento. Ciò che davvero è meno perdonabile è la pesantezza del racconto, la pochissima grazia nel presentare le proprie svolte, che risulta in una maldestra voglia di essere grande con una storia piccola.
Questa trama che dovrebbe correre come un grande fiume in piena tra eventi nel presente e ricordi, fa schioccare qualcosa nella testa della protagonista, e tutto l’intreccio è finalizzato ad una sua presa di coscienza, come un flusso di pensieri che arrivano ad una nuova consapevolezza.
Invece La ragazza del treno è un film che fatica tantissimo ad incedere, che si ferma di continuo per poi ripartire, uno in cui anche un’ottima Emily Blunt risulta tale solo all’inizio. Più la storia avanza meno le sue capacità e la sua meticolosa bravura nel rappresentare il baratro della fiducia in sé fanno la differenza.
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