sabato, Marzo 25, 2023

Silence, il film che Scorsese tentava di fare da trent’anni

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Erano 30 anni che Martin Scorsese cercava di girare questo film. Trent’anni alla ricerca di fondi e produttori disposti a credere e investire nella sua visione del romanzo di Shûsaku Endô. Trent’anni in cui ha girato film come Quei Bravi Ragazzi, L’Età Dell’Innocenza, Kundun, Gangs Of New York, The Departed e The Wolf Of Wall Street ma era Silence quello a cui pensava, paradossalmente quello sulla carta meno “scorsesiano” di tutti (non ci sono gangster, non c’è America, non c’è lo stordimento e l’esagerazione della droga o della violenza), eppure quello che li riassume tutti.

La storia è quella di due preti gesuiti del 1600 che, venuti a sapere che il loro mentore ha abiurato, si rifiutano di crederlo possibile. Inviato in Giappone per convertire i locali, sarebbe stato torturato e costretto a rifiutare la fede cristiana fino a sposare costumi e religione locali. Talmente incredibile appare la storia che decidono di partire anche loro, per andare a verificare come stiano le cose e, in caso, recuperarlo. Immagino cominciate a capire perché Scorsese ha faticato a trovare qualcuno che producesse il suo film.

Torniamo ai due preti: in Giappone troveranno l’inquisizione. Un cast di attori giapponesi tra cui spicca Shinya Tsukamoto (il regista e protagonista di Tetsuo – L’uomo d’acciaio) torturati e maltrattati alla ricerca spasmodica di ogni cristiano o segno di cristianità da massacrare e convertire con la forza. Troveranno però anche una fede di disarmante profondità e convinzione nei  superstiti al massacro, un culto estremo la cui forza e tenacia, anche di fronte alla morte, li spiazzerà. Nel loro viaggio alla ricerca del proprio mentore penetreranno sia il cuore nero del Giappone intollerante che la luce della fede.

Raccontato così sembra un film noiosissimo, anche per la sua durata, 2 ore e 45 minuti. Per quanto però nella prima parte Silence soffra di alcune lungaggini difficili da giustificare, poi si apre, mette a frutto quella lenta evoluzione, raggiungendo vette che in pochi minuti mostrano come mai Scorsese tenesse tanto a questa storia.
Tutti i film di Scorsese raccontano, in realtà, il suo rapporto irrisolto con il cristianesimo, un rapporto che risale ai tempi in cui il regista, da giovanissimo, aveva valutato il proposito di farsi prete, proposito poi rimpiazzato dalla decisione di iscriversi alla scuola di cinema. Ossessionato dai dettami cattolici, Scorsese ha sempre raccontato protagonisti e comprimari che si battono tra il peccato e un’impossibile redenzione. Ad un certo punto della sua carriera, ha raccontato proprio la lotta interna a Gesù, tra carne e santità, in L’ultima tentazione di Cristo.

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Nei film di Scorsese si muore così facilmente perché nella sua visione di mondo, che viene dall’educazione e dalla vita in strada nel Bronx, i peccati si lavano nel sangue. Già Mean Streets, nel 1973, si apre con la voce di Harvey Keitel che dice: “I peccati non si scontano in chiesa ma nelle case, per le strade. Il resto sono balle e lo sanno tutti”. Una profezia che il resto della carriera ha confermato. Chi alla fine si pente, confessa, collabora con la polizia o anche solo cerca di fare ammenda, guadagna per sé una strana forma di purgatorio: la Nuova Zelanda per il Jordan Belfort di The Wolf of Wall Street (lontano dalla finanza, dalla droga, dalle donne e dalla vita ai massimi livelli, ma libero e non in prigione); il programma protezione testimoni in cui finisce Ray Liotta alla fine di Quei bravi ragazzi (vivo e al sicuro ma privo dei privilegi che gli venivano dall’appartenere ad una famiglia mafiosa, “come uno stronzo qualsiasi” per dirla alla sua maniera); o ancora il locale in cui si esibisce Jake LaMotta alla fine di Toro scatenato. Tutti dei limbo né inferno né paradiso, in cui scontare la colpa.

La cosa più fenomenale è come questo regista, così attaccato alla grettezza della realtà, riesca a trovare luoghi da parabola divina sulla Terra per ogni sua storia. Un po’ come succede nell’episodio San Junipero della terza stagione di Black Mirror, anche qui il paradiso, il purgatorio e l’inferno sono in Terra. Silence non solo in questo non è diverso dai precedenti esempi ma è anche molto più diretto nei legami e nei riferimenti al cattolicesimo, perché mette in scena il delirio di due preti che finalmente vedono messa alla prova la propria fede, come un po’ forse speravano. Si percepiscono come Cristo, martoriati per un fine superiore, in grado di portare conforto e serenità ai credenti locali (che non vedevano un prete da anni) ma sono anche ansiosi di sentire la voce di Dio, che invece in quell’inferno si ostina a non uscire dal proprio silenzio.

Tutto questo verso la fine del film raggiunge uno zenith di tale potenza ed evidenza, un’atmosfera in cui l’esistenza del divino diventa così indubitabile e chiara anche per lo spettatore, pur senza mostrarlo mai, che impressiona davvero. Come fosse il controcampo degli altri suoi film, Silence non trova il divino in Terra ma cerca di rappresentare il concetto stesso di fede: sentire profondamente qualcosa che non si può avvertire con i 5 sensi. I due preti immacolati insomma non somigliano agli antieroi dei film precedenti ma la loro avventura dolorosissima e la loro personale passione è la summa di tutto quello che questo regista italoamericano, che aveva rischiato di diventare prete invece che cineasta, ha proposto in carriera.

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