lunedì, Novembre 11, 2024

The OA e Una serie di sfortunati eventi: due modi diversi di essere spettatore

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A Series Of Unfortunate Events

The OA ha rappresentato un traguardo importante per la storia della produzione di originali Netflix perché si confrontava con la narrativa orale: nello show di Brit Marling e Zal Batmanglji, infatti, uno dei personaggi fondamentali si chiama Homer (Omero) e la stessa protagonista che racconta la sua storia, il suo difficoltoso ritorno a casa, a un gruppo di adolescenti, richiama la figura di Ulisse che narra le sue avventure alla corte di Alcinoo, sull’isola dei Feaci. Queste premesse garantivano l’aderenza a una forma precisa ma disancorata di storytelling.

Un mese dopo la compagnia di streaming tira fuori un prodotto all’apparenza decisamente meno impegnativo e controverso, con un’appartenenza chiara a un contenitore e a un genere, servendosi di un narratore dall’identità trasparente per quanto inizialmente mistificante: è Una serie di sfortunati eventi, serie tv nata dai romanzi di una favola gotica dal finto autore Lemony Snicket dietro al quale si nasconde il vero autore Daniel Handler. Che è, tra le altre cose, una riflessione profonda su un’altro tipo di narrativa, quella letteraria. Una scusa per portare ancora l’attenzione, come nel caso OA, sul ruolo del pubblico e sulla frase: ogni storia è reale nelle sue conseguenze. 

Parlando di sperimentazione e riflessione, non si intende che Netfllix ragioni su queste due modalità di racconto in maniera speculativa: al contrario, l’interesse della compagnia di Los Gatos sembra essere di natura pratica perché volto a mostrare come i vari formati della narrativa possano essere piegati alle esigenze del piccolo schermo, esplodendo la potenzialità del mezzo televisivo di portare lo spettatore, simultaneamente, in mondi differenti. La manovra in The OA è chiara, anche perché si tratta di una storia originale. Nel caso di Una serie di sfortunati eventi è più sottile ma costituisce, forse, la sola possibile reale ragione di coinvolgimento di un pubblico adulto in quello che avrebbe tutti i numeri per essere uno show per ragazzi. Pensato per i ragazzi, e volto ai soli ragazzi.

Una serie di sfortunati eventi, nella sua manifestazione in tv, poggia sugli ingranaggi della fiaba colta dimostrando di saper utilizzare le logiche del narratore onnisciente letterario. Il paragone con The OA continua a essere valido: sia Lemony Snicket che Prairie Johnson raccontano una vicenda dolorosa e complessa, entrambi hanno fatto e fanno parte di quanto raccontano ed entrambi sembrano aver bisogno di essere validati dalla fiducia dell’audience. Ma esistono differenze strutturali macroscopiche tra i due approcci.

Mentre in The OA siamo spettatori di terzo livello, per così dire (nella serie tv sono i ragazzi della casa abbandonata ad ascoltare la protagonista, quindi la nostra immedesimazione deve passare necessariamente attraverso i loro personaggi), in Una serie di sfortunati eventi siamo chiamati in causa in prima persona dalla voce narrante, al punto da essere portati a domandarci, più volte, se dalla tasca sigillata dell’universo gramo nel quale si muovono Olaf e i Baudelaire siano a conoscenza della nostra esistenza: e se stessero recitando per noi, quasi fossimo a teatro?

Ecco, dunque, quel che accade. Lo scenario à la Wes Anderson disegnato attraverso contrasti di colore perfetti e la fotografia allo stato dell’arte, le case quasi di cartapesta e i sentieri pericolosi costruiscono in chi guarda la sensazione di avere a che fare con una creazione della fantasia perfetta; un universo indipendente e avulso dalla realtà con i suoi luoghi, le sue atmosfere e il suo linguaggio idiosincratico nel quale i meccanismi cognitivi di cui potremmo fare esperienza nella dimensione, invece, quotidiana non hanno valore.

Qui capiamo che i ragazzi protagonisti restano investiti e intrappolati in una rete di personaggi folli o imbecilli, privi della capacità o della speranza di accorgersi dell’ovvio, in questo caso della minaccia costante posta loro dal trasformismo di un avvoltoio incurante della loro sorte ma appassionato alla loro eredità. Eppure siamo costretti a fare i conti con gli occhi degli orfani Baudelaire, che sono i nostri: viviamo attraverso il loro lucido, razionale e maturo punto di vista le ingiustizie subite a causa dell’ottusità di chi li circonda al punto da spingerci a chiedere a noi stessi, in ogni momento, se non esista proprio nulla che possiamo fare per loro.

Il risultato è una sensazione di claustrofobia che si riflette sulla frustrazione tanto del narratore quanto dello spettatore: di nuovo, accade in The OA, giusto? Di gabbie si parla anche lì. Con questa variante fondamentale: i protagonisti in un caso sono imprigionati nel nostro mondo; i Baudelaire sono imprigionati nel loro. Un recinto a cielo aperto nel quale è Lemony Snicket a portarci per mano, buttando via la chiave e costringendoci a riflettere sulla nostra condizione di spettatori.

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