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L’improvvisa scoperta del milione di perseguitati rohingya in Birmania da parte dell’opinione pubblica mondiale o le ambizioni della Cina sul Pacifico e su alcuni spicchi di altri mari di suo interesse vitale come lo stretto di Malacca, dove si scontra con l’India, sono solo due minimi esempi. Di cosa? Di come ci siano infiniti scenari che, in stile scatole cinesi, vivono all’interno di un superficiale tessuto d’interessi globali.
Certo alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca sembra di ritrovarsi in effetti di fronte a una fase degna del 1989. Solo che, più che della fine della Storia, come aveva annunciato qualcuno forse troppo presto, sembra che ora di Storia ce ne sia davvero troppa, spalmata su latitudini sconosciute troppo ampie anche solo per iniziare a prenderne le distanze da subito e guardare i fatti con la giusta obiettività. Basti pensare ai soli ultimi 12 mesi da capogiro con la Brexit – che, lo sappiamo da ieri, sarà davvero hard – le tensioni prima e poi la pacificazione russo-turca con condimento di tentato golpe e attentati, l’incancrenimento del conflitto siriano e della miriade di guerre fratricide africane. Ma anche il ruolo della Cina, gigante che – a tratti, specie per le bolle finanziarie – si è creduto potesse avere i piedi d’argilla.
Molto dipenderà dalle effettive scelte di Trump. Su tutte, a parte quelle interne, la posizione sulla Nato, che ha definito “obsoleta”. L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord in effetti qualche anno ce l’ha. Istituita nel 1949 come alleanza difensiva dei Paesi occidentali nei confronti dell’altro vincitore della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica, ha in realtà già mutato la propria natura dalla caduta del muro di Berlino. Basti pensare al comando della missione Isaf in Afghanistan nel 2003, del tutto estranea agli obiettivi e agli scenari del patto, o nel 2011 ai bombardamenti sulla Libia. Che Trump voglia ridimensionare la presenza degli Stati Uniti non potrà che essere una buona notizia: dal 1989 la Nato ne era divenuto un braccio armato. Dovrebbe evolvere verso una semplice collaborazione militare, rifondarsi alle radici e orientare i suoi meccanismi al contrasto del terrorismo internazionale. La nuova minaccia davvero globale. Più probabile che si arriverà a un pasticcio che la manterrà in vita anche perché serve a placare le ansie di Vladimir Putin su alcune aree caldissime, come i Paesi baltici, parte integrante dell’Unione Europea.
L’altro ago della bilancia saranno gli inediti – e al momento davvero enigmatici – equilibri commerciali globali. Viaggiamo verso un mondo di protezionismi di vario tipo, questo è fuori discussione. Il paradosso è che sarà la Cina di Xi Jinping a difendere il “libero mercato”. “La globalizzazione è come un oceano, non si può scappare” ha detto ieri al World Economic Forum di Davos il presidente della Repubblica popolare, che ovviamente punta da sempre a ottenere nel seno della World Trade Organization lo status di “economia di mercato” e con The Donald vede quel traguardo allontanarsi. Eppure da Trump a Theresa May (altro che Maybe, come l’anno spernacchiata alcuni tabloid) le spinte al nuovo ordine mondiale sembrano quelle che marcino al massimo verso accordi bilaterali semplici. La sorte del contestato Ttip la conoscono tutti. E forse, in quel caso specifico, non è del tutto un male che il tavolo sul trattato commerciale transatlantico sia (al momento) saltato.
Dunque che quel processo di strettissima interdipendenza e integrazione tra economie, mercati, culture e nazioni – finite, anche in Occidente, in una serie di autodafé esistenziali che ne hanno liquefatto i principi e i confini – è senza dubbio in crisi. I fattori che, quasi trent’anni fa, ne avevano costituito l’innesco (fine dell’Urss, liberalizzazione degli scambi commerciali, boom cinese, Ue sempre più legata e allargata e più avanti esplosione delle economie emergenti e l’Euro) sono cambiati e in fondo era naturale che questo avvenisse.
Il mondo è ormai di fatto multipolare. Basti pensare, per esempio, al successo dei piccoli Stati sull’onda della finanza o alla centralità delle megacittà non solo sulla politica ma anche sugli stili di vita, tanto che qualcuno era arrivato a proporre una Brexin solo per Londra. I populismi che, con sfumature diverse e a vario titolo, hanno conquistato il potere sono sostanzialmente una reazione – talvolta perfino giustificata – ai lati più marcescenti di un sistema che non ha mantenuto le promesse degli entusiasmi iniziali, scollando redistribuzione della ricchezza e occupazione, allargando la forchetta fra fortunati e diseredati, catapultando in Occidente – mentre elevava il tenore medio di vita, ma la media è sempre una fregatura – a scoprire contrasti che sperava di non dover affrontare dopo i boom vissuti fra anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
All’interno di questa parabola – che globalizzando ha di fatto partorito uno scacchiere regionalissimo di interessi e tensioni – si è innestato un movimento migratorio senza precedenti. Che non coinvolge solo l’Europa o gli Stati Uniti ma anche la stessa Cina e i porosi confini del Sudest asiatico. Come nel commercio, anche in questo caso l’unica arma è alzare muri, il contraltare fisico dei dazi e delle tariffe doganali. Come se dopo aver goduto dei benefici di una crescita galoppante a spese di pezzi di mondo che non vedevamo e anzi non dovevamo conoscere non avessimo la sufficiente responsabilità per farcene carico. Consentendo così a quei territori di diventare i nostri nuovi mercati – esattamente quello che, certo con metodi discutibilissimi, sta facendo Pechino in molti quadranti africani. Si sta costruendo nuovi mercati di sbocco, in un’idea tutta commerciale e finanziaria di “spazio vitale”.
Un altro fenomeno senza controllo apparente, che nelle pubbliche opinioni dei Paesi occidentali sta facendo breccia solo negli ultimissimi anni, è il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale non potrà che peggiorare quel movimento migratorio. Molte isole finiranno sott’acqua, un Paese come il Bangladesh affogherà, la desertificazione continuerà a mangiare terre utili alle coltivazioni e alla vita e produrrà conflitti di stampo inedito, tutti geografici. Basti vedere, solo per una piccola porzione delle numerose responsabilità ovviamente, quanto accade in Darfur, in Sudan. Per non parlare delle guerre dell’acqua.
Dunque l’Occidente sta scomparendo? Probabilmente è morto da trent’anni. In fondo, ciascuno di noi è Occidente oppure Oriente per qualcun altro. Lo raccontano con lucidità pazzesca e angosciante: “Andiamo a cercare ovunque, oltre gli amici europei, vogliamo una Global Britain”. Ma con i confini ben sigillati perfino ai vecchi soci francesi o italiani.
Un premio Nobel come Amartya Sen denuncia da anni i rischi di quell’interdipendenza e delle sue storture. Lo spiegò già in un testo seminale come Globalizzazione e libertà, una raccolta di interventi uscita nel 2002, appena tre anni dopo un altro lavoro seminale, quel No Logo di Naomi Klein che ci ha aperto gli occhi su quanto stava accadendo negli equilibri del lavoro e sulle culture di contestazione. Basterebbero quei due lavori per capire cosa stia succedendo quindici anni più tardi.
Stato-mercato e Oriente-Occidente: dicotomie ormai (di)sciolte – come denunciava il filosofo Giacomo Marramao nel suo ostico ma illuminante Passaggio a Occidente del 2009. Il problema è che, da Trump in giù, si tenterà di salvarne l’ossatura ormai caracollante anziché ricostruire dal basso – riformando Unione Europea, Nato, Onu, Wto – un meccanismo più equo. Che dall’interdipendenza economica passi alla solidarietà sociale. Evidentemente le guerre mondiali, quelle geopolitiche, le catastrofi naturali e la minaccia di un terrorismo polverizzato che ci toglie il fiato non bastano a soddisfare la sete ipernazionalista che solletica il lato più debole della nostra identità di cittadini del 21esimo secolo.
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