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Il primo Resident Evil a cui ho giocato è stato Code Veronica, su PlayStation 2. A dire il vero, fu il primo videogioco a cui giocai su PlayStation 2. Inutile dire che ne rimasi ipnotizzato. Il gioco era infinito, con una ricchezza di ambientazioni incredibile. Ci si svegliava in una cella, si esplorava un’isola teatro di terribili esperimenti da parte della famigerata Umbrella, si scendeva in sotterranei, si perlustravano stanze delle torture, laboratori, poi si accedeva alla villa degli Ashford, dove si conosceva la storia di un bambino e una bambina, gemelli di una famiglia ricchissima, il loro rapporto morboso, la follia. Si percorrevano stanze dal pavimento a scacchiera, si risolvevano enigmi. Una libreria scorreva, lasciando libero un accesso che portava a un misterioso castello. Poi l’ambientazione cambiava, si finiva in Antartide, nei laboratori della Umbrella. Tutto questo gestendo il proprio arsenale per far fuori zombie e altri mostri e superare i vari boss.
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Se è vero che all’origine c’è sempre un imprinting, per quanto riguarda la mia esperienza su console domestica, l’imprinting mi venne dato proprio da quel gioco.
E, in effetti, ho sempre cercato videogiochi che mi trasmettessero le stesse emozioni; i precedenti della saga, Resident Evil 2, Resident Evil 3: Nemesis, altri survival horror come Silent Hill, certi stealth che permettevano un’immedesimazione simile con il personaggio (Metal Gear, anche se siamo su un altro genere) eccetera. Riguardo alla saga di Resident Evil, il miglior titolo dopo Code Veronica, per me è stato Resident Evil 4. Giocarlo era come entrare in un luna park. E anche lì era grandiosa la ricchezza degli scenari: la fortezza dei Los Illuminados, i villaggi degli infetti e infine l’isola degli esperimenti. Grande arsenale, il piacere della contrattazione di armi e pietre preziose con il Merchant, una gamma di mostri divertentissimi. Non da ultimo, personaggi carismatici e con un’ironia di fondo che la saga non ha più ritrovato (Ramon Salazar, il piccoletto malvagio). Un gran titolo.
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Purtroppo dopo Resident Evil 4, la Capcom non ha fatto altro che peggiorare. Prima di tutto ha variato il gameplay alla base dando in gestione al giocatore due personaggi. Questo, secondo me, ha spezzato l’immedesimazione che era la chiave al divertimento dei titoli precedenti. Poi, ha cercato di rendere il gioco graficamente più bello, cinematografico come nel caso di Resident Evil 6, ma privandolo di immediatezza. Ho finito col preferire la “sottoserie” Revelations a quella principale, almeno lì esplorazione e azione avevano un gusto retrò. Quando ho saputo che Resident Evil 7: Biohazard sarebbe stato ambientato in una casa fatiscente, che certe sue atmosfere ricordavano True Detective e che era in visuale soggettiva, mi sono arreso e ho detto: “Ok, il mio Resident Evil non esiste più. Basta. Mettiamoci una pietra sopra”. La pietra l’ho dovuta quanto meno sollevare dopo aver giocato la demo Beginning Hour. Poi l’h comprato. Ci ho giocato e ci sto giocando e… ok, devo ancora finirlo, ma mi sento di poter dire, che questo capitolo segna un vero passo in avanti per quanto riguarda il gameplay e, allo stesso tempo, un sano ritorno alle origini per quanto riguarda il puro divertimento.
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Come dicevo prima, l’esplorazione è sempre stata un elemento alla base dei migliori Resident Evil come Code Veronica. Ebbene, proprio la visuale soggettiva, rende RE7 il capitolo più esplorativo in assoluto. Lungi dal cadere nell’errore di sfornare una sorta di sparatutto o un survival dove l’azione predomina sull’atmosfera alla Dead Island, gli sviluppatori hanno sapientemente usato la visuale soggettiva per immergere il giocatore nelle ambientazioni a 360 gradi. Cammini perlustrando un ambiente che a ogni passo potrebbe rivelarsi nemico, oppresso da un gioco di luci e ombre, affollato di mobili sfasciati, bamboline spettrali, letti ribaltati, sacchetti pieni di roba rossa, manichini eccetera. Se nei passati Resident Evil guardavi sostanzialmente in avanti, qui devi guardarti intorno, girare su te stesso, perché le ombre, gli scricchiolii e le urla più o meno remote, sono un monito continuo. Il sistema di salvataggio avviene tramite un mangianastri anziché l’antiquata macchina da scrivere, anche qui abbiamo dei punti franchi dove riposare e fare l’inventario delle nostre risorse, anche qui dobbiamo gestire bene le nostre armi per affrontare al meglio i mostri.
Il titolo si rinnova anche per quanto riguarda la trama. Se i primi Resident Evil si somigliavano e mettevano in campo gli stessi elementi – Umbrella, esperimento sbagliato, pandemia, mostri da ammazzare, qualcuno da salvare oltre alla propria pelle – qui siamo in una casa a metà tra una catapecchia e un castello e abbiamo a che fare con una famiglia di pazzi, i Baker. La trama è autonoma per quanto abbia agganci con il plot di base della saga. Ripeto, sto giocando, devo ancora finire il titolo e avere un’idea globale della sua ricchezza di ambientazioni, della sua trama, ma finalmente ho tra le mani un titolo che mi fa guardare indietro non per pensare quanto bello fosse il passato, ma per salvarmi la pelle, perché Jack Baker potrebbe spuntare dall’ombra.
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