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Sembrava che Argo avesse fugato ogni dubbio, confermando Ben Affleck come uno dei registi più interessanti e soprattutto più seri e rigorosi ci fossero a Hollywood. Dopo l’esordio incredibile (proprio nel senso di “difficile a credersi possibile”) con quel film strano e misteriosamente affascinante che è Gone Baby Gone, e la conferma di una mano fermissima con quel solido film di rapine bostoniane che è The Town, la conferma finale era arrivata per l’appunto con l’approdo ad una trama più ambiziosa, gestita benissimo, in Argo. Ben Affleck non solo è un regista abile e tecnicamente impeccabile ma anche un formidabile narratore di storie, capace di un minimalismo encomiabile.
La legge della notte doveva essere una passeggiata per lui, storia di un uomo cambiato dalla prima guerra mondiale che si dedica al crimine per non dover sottostare più a nessuna autorità. Per colpa di una donna (quella del boss più pesante della città) finisce all’ospedale e poi in galera, sconta la sua pena e, una volta uscito, è costretto ad avere un padrone, il boss rivale di quello che l’ha massacrato.
Sarà incaricato di gestire gli affari della Florida, una nuova zona per lui. Lì, in quello stato ancora profondamente razzista, creerà un suo feudo e di nuovo l’amore per la donna sbagliata (stavolta perché di colore) lo metterà nei guai.
Invece è un calvario di melassa, un pantano di noia e scarsa decisione.
E dire che invece lui, Ben Affleck, di nuovo protagonista di un suo film, continua ad ostentare quello stile di recitazione così misurato e flemmatico che gli ha attirato l’odio di buona parte del pubblico, assieme alle accuse (ampiamente fuori luogo) di incapacità.
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In La legge della notte tuttavia quell’aria dimessa e costantemente abbattuta dalla vita che suona così adeguata ai personaggi che ama scrivere, è per la prima volta fuori luogo in una storia che sembra andare da un’altra parte. Intruso nel suo stesso film questa volta Affleck sembra aver compresso in due ore una brutta serie tv, con un’esagerata confluenza di troppe linee narrative poco sviluppate che portano solo ad una grande indecisione di temi e toni (è romantico? È duro? È sentimentale?).
Del resto, in questo filmone troppo lungo e troppo indeciso, emerge molto più il boss di Remo Girone, italoamericano d’altri tempi un po’ svantaggiato dal doppiaggio (benché sia egli stesso a doppiarsi) e più interessante nel suo originale pessimo inglese. La legge della notte proprio non sembra un film adatto al suo regista/interprete, ma più in linea con i ruoli e le interpretazioni di Chris Messina o di Sienna Miller, attori e attrici più coloriti e adatti a questa storia così indecisa e bisognosa di interpreti che le diano un po’ di colore, invece di girare attorno ad un protagonista che funziona in tutt’altra maniera.
Addirittura La Legge della notte si permette il lusso di marginalizzare una serie di presenze che altrove avrebbero guidato la carica come Zoe Saldana, Brendan Gleeson o Elle Fanning (in un ruolo davvero minuscolo) a favore di niente. Perché nonostante non manchino eventi e svolte, lo stesso la storia non crea mai quell’atmosfera misteriosa ed interessante che tanto brama. Più insiste nell’affermare la grande lotta di un gangster per prendere le redini della propria vita, più perde in senso e più svilisce se stesso.
Questo regista e sceneggiatore così bravo (va ricordato che lui, insieme a Matt Damon, è la penna dietro Will Hunting – Genio ribelle), dotato solitamente di un ammirabile controllo, ultimo interprete di quella categoria di autori compassati e decisi, dalle idee chiare e la volontà di ferro come Eastwood, John Ford, Don Siegel o John Milius, è qui irriconoscibile.
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