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Nessun mondo da salvare, nessuno scontro epico tra le forze del Bene e del Male, nessuna gloria, ma solo un mutante stanco, sofferente, vinto. Logan, da qualche giorno in sala, è un pugno nello stomaco, un film sull’ultima stremata anonima battaglia di un guerriero che ha perso la voglia di vivere. L’ennesima pellicola sui supereroi è una sorpresa meravigliosa: dopo due precedenti (X-Men le origini – Wolverine e Wolverine – L’immortale) non così memorabili, il ferale mutante si congeda con un capitolo finale che sbanca al botteghino parlando di dolore, disperazione e senilità. Non è il suo risultato più incredibile: assieme a Deadpool – cinecomic sopra le righe e sfacciato – ha risollevato le sorti dei supereroi cinematografici proprio quando i blockbuster del Marvel Cinematic Universe e DC minacciavano di avere esaurito le idee.
Negli ultimi quindici anni i grandi Studios che si spartiscono i diritti sui supereroi a fumetti della Marvel e di DC Comics hanno saturato il panorama cinematografico, emergendo a turno, tra successi, declini, rielaborazioni, rinascite.
Dal Batman di Tim Burton, trasposizione amena ma popolare dell’89, hanno imparato che affidare a grandi registi l’adattamento dei comics è una mossa vincente. L’agghiacciante deriva kitsch (quelle due mostruosità che sono gli imbarazzanti Batman Forever e Batman & Robin) conseguente svilì la parabola dell’uomo pipistrello fino all’avvento della cupa trilogia nolaniana di Il Cavaliere oscuro inaugurata nel 2005: ancora un grande regista, un budget stratosferico, migrazione di massa di pubblico al cinema e trionfo della DC (due anni prima il marveliano Hulk di Ang Lee non era stato altrettanto convincente).
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La storia si ripete, con le varie trasposizioni di Spider-man (l’emerita firma, in questo caso è, all’inizio, Sam Raimi), degli X-Men (curati dal disfunzionale Bryan Singer) e di Superman (adattato dal macho Zack Snyder). Warner, Fox e Sony sfornano blockbuster monumentali ma privi di una visione di insieme.
Il Marvel Cinematic Universe si basa su premesse differenti: la parola “Universe” implica da sé la centralità di quella visione d’insieme sopracitata. Dietro a tutto c’è un produttore, Kevin Feige, che ha aderito a una struttura generale, una cronologia in fasi per trasformare la storia degli Avengers in un immenso puzzle, nel quale ciascun film è un tassello. Va addirittura oltre, affidandosi al piccolo schermo al quale delega i tasselli che fanno da collegamento tra un film e l’altro – tramite la serie Marvel’s Agent of Shield –, fino a infiltrarsi nella serialità da binge-watching di Netflix, dove le spettacolari battaglie dei Vendicatori risuonano come un’eco nelle vite dei supereroi più defilati e “ordinari”. Il segreto dell’MCU è nella ricetta: convoglia risorse infinite a livello produttivo in una macchina operata da registi/sceneggiatori – come Joss Whedon – geniali e fantasiosi, stabilisce un tono preciso – il drammatico screziato di commedia incentrata sulla camaraderie dei Vendicatori – alterna le pellicole “grosse” (quelle sugli Avengers e Captain America) alle monografie degli altri supereroi. Risultato: immane successo.
Le ultime stagioni cinematografiche hanno evidenziato alcune fratture: le marveliane Avengers: Age of Ultron e Captain America: Civil War sono lontane dai fasti di un precedente riuscito come il primo capitolo dei Vendicatori del 2012. Joss Whedon, ammettendo di essere uscito a pezzi dall’esperienza di Age of Ultron, punta il dito contro le ingerenze dei piani alti: quella libertà creativa concessa al regista e consulente della Casa delle Idee è stata progressivamente imbrigliata. Pellicole “di contorno” come Guardiani della galassia, meno controllate e affidate ad autori pieni di fantasia e ingegno come James Gunn, hanno mantenuto, invece, una certa indipendenza. A Batman e Superman, uno contro l’altro in Dawn of Justice, è andata molto peggio rispetto agli Avengers: i due campioni DC sono finiti in una melma narrativa fatta di falle, inconsistenze diegetiche ed espedienti risibili, dimostrando che il problema rispetto ai film Marvel è ancora più grave: la velleità di creare un universo omogeneo – convogliando i personaggi nella Justice League – quello che Feige ha fatto con gli Avengers è minata dalla mancanza di consistenza narrativa.
Torniamo a Logan e Deapool, le più innovative pellicole di supereroi delle stagioni recenti: sono due outsider – lo sono i personaggi, restii a lasciarsi inquadrare, e lo sono i loro interpreti, che si sono presi la responsabilità creativa delle storie rispettivamente di Wolverine e di Wade Wilson -, sono due successi imprevisti e due film oggettivamente belli. Ryan Reynolds, è noto, ci ha messo mente, cuore e soprattutto soldi, costringendo i boss di Fox a concedergli i diritti per la realizzazione di Deadpool. Il risultato, firmato da Tim Miller, è così politicamente scorretto che ancora ci si chiede come sia riuscito ad avere carta bianca, ma in ogni caso questa libertà creativa ha permesso a un personaggio già massacrato dalla trasposizione cinematografica (vedi il secondo capitolo di Wolverine) di avere giustizia, di attestarsi come un (anti)eroe indomito e immune all’asservimento. Quella stessa irriverenza ha ispirato gli avversari di casa DC, i quali hanno reagito sfornando… l’orripilante Suicide Squad.
Con l’ultimo capitolo della saga di Wolverine il quadro si fa ancora più chiaro: il Logan del regista James Mangold – scollato dagli altri film sugli X-Men – segna il riscatto di un supereroe bistrattato dalle precedenti monografie su grande schermo che conclude la sua parabola in solitudine: non c’è la salvezza del mondo in gioco – l’apocalisse è già avvenuta, gli X-Men sono stati spazzati via, tutti gli altri mutanti pure. Logan è un solitario, un ribelle, non si è mai sentito veramente un X-Man, e ora che non lo è più annega nel rimpianto. Le scelte del Wolverine di Mangold sono analoghe a quelle del Deadpool di Miller: rigettare la tendenza comunitaria degli altri supereroi a favore dell’individualismo, combattere le proprie – personali – battaglie e non macroguerre legate al destino del pianeta. Allontanarsi dalla monumentalità della messa in scena su cui si fondano i blockbuster degli Avengers, degli X-Men, delle Justice League. Il Wolverine solitario, spezzato e invecchiato di Logan – animale ferito governato solo dallo spirito di sopravvivenza che lotta con la forza della disperazione in un mondo indifferente – ne è l’antagonista assoluto. E con Deadpool, illustra il percorso ideale per i supereroi dei comics che vogliono sfuggire all’inquadramento dei cinecomic ad alto budget prigionieri di rigidi format .
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