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Nell’ambito di un incontro con gli studenti sul tema dell’alternanza scuola lavoro (che citando il Direttore Generale di Toyota Material Handling Italia “non si capisce perché un percorso che dovrebbe rappresentare una continuità fra scuola e lavoro venga definito alternanza“), il Ministro Poletti ha espresso testualmente questi due concetti:
“Il rapporto di lavoro è prima di tutto fiducia, per questo si trova di più giocando a calcetto”
aggiungendo poi:
“i rapporti che si instaurano nel percorso di alternanza fanno crescere il tasso di fiducia e quindi le opportunità lavorative”
L’inizio di questa storia è tutta qui e ormai sui social network oggi non si parla di altro.
Sul fatto che i Ministri non siano particolarmente comunicativi quando parlano di giovani e di lavoro direi che non ci sia molto da aggiungere: dai “bamboccioni” di Padoa Schioppa, ai “choosy” della Fornero, alle reiterate gaffe di Poletti stesso, su Repubblica stamani si sono divertiti a metterle tutti insieme.
Dunque ripartiamo da qui, dal punto in cui il messaggio è stato utilizzato dai politici da una parte, che per ovvi motivi lo hanno utilizzato a proprio uso e consumo a seconda dello schieramento di appartenenza e dalla rete dall’altra parte, che ha enfatizzato quel messaggio per fare il lavoro di sempre: commentare con ironia (e più spesso con disprezzo) un malessere diffuso nei confronti dei politici. Peggio, se questi parlano di lavoro, nervo scoperto dei nostri tempi.
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Eppure questa volta bisogna essere onesti perché questa Croce Rossa su cui tutti sparano non ha detto niente di così trascendentale da qualsiasi parte la si voglia leggere. Si, perché se il messaggio è che in Italia il passaparola conta più di qualsiasi selezione del personale, anche se da selezionatore mi sento dire che non sia (più) vero, è quanto viene quotidianamente dichiarato in rete. Non è certo una novità.
Anche se a mio avviso, questa interpretazione risulta comunque inesatta.
La seconda interpretazione, quella che ha fatto gridare allo scandalo, riguarda invece l’inutilità del curriculum rispetto ad una rete di relazioni che consenta di bypassare una selezione del personale grazie ad amicizie dirette. Ovvero: leggi raccomandazioni. Ma Poletti non ha mai detto questo.
Il messaggio a me è sembrato molto più semplice ed elementare: se in Italia gli studenti iniziano a collaborare con le aziende durante il percorso di studi (e quindi, come succede in molti Paesi esteri, durante l’estate), è più facile che i datori di lavoro entrino in confidenza con questi (creando un rapporto di fiducia) e conoscendosi si crei una relazione che più facilmente porterà ad un’assunzione una volta completato il percorso.
Sappiate che invece è pratica comune per le aziende italiane, catapultarsi al termine degli esami di maturità o delle tesi di laurea sulle liste dei neolaureati e neodiplomati a pieni voti al fine di accaparrarsi “le migliori menti” del territorio e dando il via a “Programmi Talenti” dove si selezionano 2000 persone per inserire 5 stagisti. In Brembo, come in tante realtà italiane, per esempio, funziona cosi.
Ma un percorso del genere, oggi, è davvero anacronistico.
Altro messaggio a mio avviso fin troppo banale per poter essere frainteso è: a fronte di milioni di curriculum che vengono inviati, è più efficace cercare una relazione con le aziende con cui si vuole lavorare attraverso attività di networking e di relazione. Il calcetto è la metafora 2.0 che vorrebbe superare quella dei campi da golf degli anni 80, quando si diceva che i manager facevano networking a colpi di buche. Nel tentativo di restyling, Poletti si avvita su se stesso, ignorando che i campi di calcetto dei candidati del nuovo millennio (x, y, Millennials, non si sa più come chiamarli…) oggi sono i Gruppi Linkedin, i Coworking, i Career Day, gli Open Day aziendali e tutti quei posti in cui le relazioni (ma credetemi, parlo di persone che si stringono una mano e scambiano due biglietti da visita, non di assemblee di incappucciati) sono un’occasione per conoscere manager e imprenditori che spesso sono filtrati da segretarie o nascosti fra le tende degli uffici.
E’ sempre più facile trovare un’occasione in cui le aziende escono allo scoperto al fine di fare “employer branding” (quella pratica per la quale i direttori del personale si presentano in pubblico per raccontare quant’è figa la propria azienda al fine di creare attenzione e calamitare curriculum).
A mio avviso il contesto conta più di ogni altra cosa, non c’è dubbio, perché identico messaggio non ha creato alcun problema ai lettori di Alessandro Cecchi Paone che dalle pagine di Linkedin invitava tutti ad abbandonare il curriculum, vecchio strumento di selezione per abbracciare altri canali. A mio avviso criticabili quanto il campo di calcetto di Poletti, visto che sul sito largamente promosso da Cecchi Paone ci sono Tre dico Tre “opportunità” che in realtà sono stage che sia per quantità che per qualità, non rivoluzioneranno di certo il mondo del lavoro.
Ma questo è un altro discorso, immaginiamoci cosa sarebbe successo se lo avesse promosso un politico.
Mi appello alla clemenza della Rete che probabilmente sta già pensando io voglia “difendere” l’indifendibile. Sono solo un recruiter che da anni sostiene l’inadeguatezza del curriculum (ancor peggio se europeo) e sostiene concretamente l’importanza del networking, delle relazioni sane, dei rapporti faccia a faccia, tanto da mettere particolarmente in luce fra le caratteristiche che inserisco nei miei annunci di lavoro, la capacità di fare network e la predisposizione alla comunicazione e ai social.
Eppure ogni giorno in rete compaiono soluzioni alternative all’uso dei curriculum. Da chi si fa pagare per selezionare candidati (“Perché il tempo è prezioso per tutti e uno sbarramento iniziale di qualche decina di euro velocizza in modo drasticamente efficiente la selezione“) a chi propone percorsi di Meritocrazia (“non potrete scegliere luoghi, solo aspirazioni“).
Il sospetto, paradossalmente è che il giudizio sia tranciante se veicolato da chi ricopre posizioni di potere, decisamente più accomodante e spesso addirittura innovativo se “giovane, carino, startupparo”.
In definitiva, mi viene da dire che l’abbandono del curriculum almeno in Italia non è ancora una pratica consigliabile. Condivido con voi un’esperienza professionale che mi fa dire senza alcun dubbio che in tanti anni nessun candidato sia entrato in azienda senza la presentazione iniziale di un curriculum e che nessuna azienda seria nell’ambito di una selezione si accontenterebbe di incontrare un solo candidato anche se referenziatissimo o caldeggiato da amici e parenti. Chi si vanta di non aver mai lavorato grazie ad un CV ma solo per passaparola deve essere anche consapevole del fatto che “cercare l’azienda giusta” avrebbe comportato certamente più fatica ma che gli avrebbe concesso di guadagnare almeno un terzo in più del suo stipendio, proprio perché “selezionato” fra molti.
E’ anche vero però che il curriculum, mai come oggi deve essere uno strumento di presentazione e non può più essere l’unico vettore per riuscire a fare un colloquio in azienda. Mai come oggi la capacità di relazione, la curiosità, la possibilità di presentarsi di persona fa davvero la differenza e permette agli interlocutori aziendali di avere un’informazione supplementare ad un semplice foglio di carta.
Per questo, che ci piaccia Poletti o non ci piaccia, spegnete quello schermo e ogni tanto scendete in campo a far vedere come giocate la partita. Il rischio è di rimanere in panchina ad aspettare il proprio turno.
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