lunedì, Settembre 16, 2024

Prey, la prova in anteprima dell’action game fantascientifico

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Siamo volati da Arkane Studios per vedere più da vicino l’action game fantascientifico e tentare di carpirne i segreti dai suoi autori. E con un certo sgomento ci è sembrato credibile. Molto

Austin, Texas — Il nostro incontro ravvicinato con Prey non potrebbe avvenire in un posto più consono. Non tanto perché i cartelli che da queste parti suggeriscono di non entrare armati nei ristoranti ricordino che il videogioco che siamo invitati a provare in anteprima ha una buona componente bellica, piuttosto perché il titolo con cui Arkane Studios punterà il prossimo 5 maggio ad affiancare un altro successo alla sua punta di diamante, la serie di Dishonored, si muove su una solida premessa narrativa che proprio fra le lande texane ha le sue origini. Distopiche.

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Texas, 22 novembre 1963.

Scampato al tentativo di assassinarlo, il presidente John Fitzgerald Kennedy decide di collaborare con il programma spaziale sovietico e allestire, con il compagno (e alleato) Nikita Krusev, una laboratorio attorno al satellite russo Vorona I, in orbita dal 1958 e ricettacolo di una misteriosa e letale forma di vita aliena, ribattezzata Typhon.

Il progetto congiunto, denominato Programma Kletka, ha l’obiettivo di replicare sugli uomini le prodigiose capacità psico-fisiche del Typhon, una forma di vita leviatanica, costituita da una moltitudine di esseri, in grado di mutare forma e teletrasportarsi.

Quando, nel 2032, al progetto governativo si sarà sostituita la potente corporazione privata TranStar, sarà nostro compito — o meglio, del nostro avatar Morgan Yu — scoprire cosa sembri andare storto nel laboratorio orbitante, ormai diventato una città cosmica, la Talos I.

Vero, riassunta così potrebbe sembrare la solita premessa à la Alien (soprattutto Isolation): prendi un luogo chiuso, infilaci un predatore dalla potenza soverchiante e vedi un po’ cosa si inventano le sue prede per sopravvivere. Se non fosse che proprio quell’incipit texano, con il suo muoversi in equilibrio tra fatto storico e fantasia, dirige verso binari differenti.

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È grazie alla credibilità del contesto che la fantascienza di Prey seduce e trova il gancio più efficace per portare dentro il suo universo in pixel. “Siamo partiti da una domanda”, spiega Ricardo Bare, giovane lead designer di Arkane Studios: “Che cosa sarebbe successo se Kennedy fosse sopravvissuto a Dallas e avesse investito nella corsa allo Spazio il doppio di quanto fece in realtà? Per immaginarci la risposta non ci siamo limitati a qualche volo pindarico: quando lavoravamo al gioco molti di noi hanno fatto ricerche in ambito neuro-scientifico — i poteri del Typhon sono psichici —  hanno studiato la tecnologia spaziale e il business delle esplorazioni del cosmo. Per questo molti elementi del gioco, come i neuromod e diverse dissertazioni psicologiche, hanno una base rigorosa. Ovviamente lo spunto iniziale poi è stato distorto, anche grazie al contributo in fase di scrittura di Chris Avellone, per renderlo più divertente e speculativo. Ma in Prey capita spesso di trovare rimandi reali a quel che si vede e si racconta“.

La cosa è chiara fin dai primi minuti di gioco e ne amplifica l’efficacia: il libro in cui si spiega come usare le interfacce analogico digitali l’ha scritto tale Antoniette Sokol, come la tuta spaziale russa; il primo manifesto della TranStar intravisto in un corridoio recupera lo stile grafico della cosmonautica delle origini, quasi l’avesse stampato per omaggiare Yuri Gagarin la Gozistad, la casa editrice dello stato sovietico; dulcis in fundo, durante il tutorial ben integrato nella storia, una serie di test attitudinali sottopone al giocatore il dilemma del carrello, il famoso esperimento mentale di filosofia etica di Philippa Ruth Foot (se doveste scegliere chi investire con un tram, preferireste cinque persone o deviereste verso una?).

Non voglio svelare troppo, ma ci sono posti e momenti in cui la trama dirà di più riguardo a quei test”, spiega Bare. Ciò premesso, credo che uno dei valori principali in Arkane Studios sia fare del mondo di gioco uno dei personaggi migliori della storia. Abbiamo provato a farlo in Dishonored, investendo molto nella città di Dunwall, e lo stesso abbiamo tentato in PreyPer questo ogni minuzia è importante, ogni dettaglio viene studiato da un artista, da un level designer o da un autore per assicurarsi che sia coerente con l’universo di riferimento. L’ambiente di gioco racconta la propria vicenda; perfino quando non ci sono personaggi parlanti in circolazione”.

A proposito, la Talos I, la gigantesca stazione che ospita l’intera avventura e che sempre all’insegna delle credibilità mescola stili architettonici diversi per dire della sua età, è l’elemento che permette ai suoi autori di definire Prey un open space station game: “Ci piace definirlo così non certo perché abbia la stessa estensione di uno Skyrim, sia chiaro, ma perché ne condivide la struttura aperta”.

La Talos I, manifesto orbitante di retrofuturismo e art décoLa Talos I, manifesto orbitante di retrofuturismo e art déco

“In Prey si può andare ovunque, esterno compreso. Esiste una demo in cui si vedono giocatori galleggiare fuori dalla Talos I, in una passeggiata extraveicolare. Abbiamo concesso all’utente un ampio spettro di possibilità, anche nell’approccio all’ambiente di gioco: se per esempio qualcuno volesse tornare nel proprio ufficio qualche piano sopra, ma l’ascensore fosse guasto, potrebbe ripararlo, oppure provare a raggiungere la destinazione passando da fuori. Ogni esperienza sarà diversa da quella altrui“.

Un approccio non limitato agli ambienti e alla loro perlustrazione.

“La cosa che preferisco in Prey sono i mimic, gli alieni aracnidi capaci di mimetizzarsi con l’ambiente. Sono uno degli elementi principali del gioco, sono dappertutto e credo siano parecchio emozionanti, perché non seguono alcun copione: l’intelligenza artificiale prevede possano trasformarsi negli oggetti fisici presenti nel loro ambiente, punto. Il resto delle loro azioni non è previsto dai designer ed è in grado di rendere ogni partita diversa dalla precedente”.

Cosa confermata dalla quarantina di minuti di gioco affrontata: in un livello ambientato nello Psychotronics, un laboratorio segreto, quando giriamo equipaggiati anche con lo Psychoscope potenziato al massimo, una sorta di visore capace di scandagliare l’area circostante e darci ogni informazione utile su quanto inquadrato, gli attacchi dei mimic sono non solo efficaci, ma anche spaventosi. Per non parlare di quelli del Phantom, la forma antropomorfa del Typhon, qualcosa fra gli invasori di Edge of Tomorrow e il Dr. Zero del cartoon Fantaman.

“Tutto è iniziato con Raphael Colantonio, il nostro direttore creativo: voleva che i nostri alieni evocassero qualcosa di sovrannaturale, quasi paranormale. Desiderava che il Typhon, che per inciso riprende il nome mitologico del padre di tutti i mostri, Tisifo o Tisifeo, fosse indecifrabile, motivo per cui una parte del gioco sfrutta gli scanner per rintracciare informazioni preziose e svelare il mistero circa la sua natura“.

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Ed eccola tornare, quell’insistente miscela di rimandi scientifici e invenzione, anche in grado di fare tabula rasa rispetto al Prey originale, il gioco sviluppato nel 2006 da Human Head Studios di cui Arkane riprende quasi nulla. “Viviamo in un’epoca emozionante”, conclude Bare. “Durante lo sviluppo del gioco abbiamo studiato con attenzione i progetti di Blue Origin e quello che sta facendo Elon Musk con SpaceX: sono tutte cose che stanno accadendo adesso e non solo grazie alle agenzie governative. Per la prima volta nella storia, individui e aziende private hanno i mezzi per provare a fare progredire la tecnologia spaziale. Nel mondo immaginato da Prey, semplicemente, questo accade con più rapidità”.

Difficile dire quanto e se sia incoraggiante, visto che il Typhon sembra avere molto a che fare con Morgan Yu, la nostra proiezione su schermo (“si scoprirà di non essere solo sfortunati testimoni di un esperimento in orbita“). Tant’è, ad ascoltare quanto detto da Bare in merito alla nuova era spaziale, sembra quasi di sentire i nostri astronauti, proiettati — e non per gioco — alle imminenti esplorazioni cosmiche.

Nell’attesa, e proprio come in Prey, meglio indirizzare la storia sui binari giusti. E nel Texas del 2017 evitare di sfoggiare il revolver al ristorante.

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