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Quanto sono vulnerabili ai cyber attacchi le stampanti?


Le stampanti stanno diventando, sempre più rapidamente, il principale obiettivo degli attacchi informatici alle aziende. Ecco le contromisure da prendere

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stampanti

Oggi le aziende si trovano ad affrontare una serie di minacce informatiche senza precedenti. Dagli attacchi mirati alle frodi, dal phishing al malware, dall’adware allo spam, la lista sembra non finire mai. Di solito si pensa che gli obiettivi di questi attacchi siano i soliti sospetti: pc, telefonini, server e data center. Raramente, però, viene preso in considerazione un oggetto che quasi tutte le aziende usano regolarmente: la stampante.

Anche se potrebbe sembrare improbabile, infatti, le stampanti stanno diventando, sempre più rapidamente, il principale obiettivo degli attacchi informatici diretti ai dispositivi aziendali. La questione è emersa nel febbraio 2017, quando, un cosiddetto ”hacker etico” avrebbe aggirato i sistemi di protezione di 150.000 stampanti, forzando i dispositivi a stampare messaggi di warning sulla loro vulnerabilità. Questo attacco informatico, portato a segno sfruttando problemi noti, può essere facilmente contrastato con alcune misure di protezione di base, come l’impostazione di una password. Tuttavia, il fatto ha messo in evidenza una questione importante: le stampanti sono dispositivi sofisticati e, come per qualsiasi altra periferica connessa in rete, la loro sicurezza richiede alcune precauzioni di base. Nessun responsabile IT con esperienza consentirebbe di utilizzare un pc privo delle opportune misure di sicurezza e lo stesso dovrebbe avvenire per le stampanti.

Basti pensare a come sono fatte le stampanti moderne. Molte includono funzionalità per la scansione e la stampa da remoto. La maggior parte è inoltre dotata di hard disk simili a quelli dei pc, in cui vengono archiviate copie digitali di tutti i documenti sottoposti a scansione, copiati, inviati tramite email e stampati. Dalle informazioni personali sui dipendenti ai numeri delle carte di credito, alle cartelle sanitarie dei pazienti ad altri documenti riservati, le stampanti moderne conservano una copia di tutti i documenti elaborati. Si tratta di una grande quantità di informazioni confidenziali che rischiano di cadere nelle mani sbagliate.

A partire da maggio 2018, non saranno più le aziende a scegliere se salvaguardare o meno la sicurezza di queste informazioni. Il Regolamento generale sulla protezione dei dati (General Data Protection Regulation) dell’Unione Europea ha stabilito sanzioni elevate per le aziende che non saranno in grado di garantire la sicurezza dei dati personali dei cittadini europei, indipendentemente dal paese in cui l’azienda abbia sede. Per alcune infrazioni previste da questo regolamento, le aziende possono ricevere multe fino a un massimo del 4% del fatturato globale annuo o 20 milioni di euro.

Anche in Italia recenti iniziative hanno sottolineato la necessità di porre attenzione e applicare le misure di sicurezza adeguate a tutti i dispositivi connessi presenti in ufficio. L’Agenzia per L’Italia Digitale, AGID, per esempio, nelle sue Misure Minime di Sicurezza ICT per le Pubbliche Amministrazioni, ricorda che la prima cosa da fare per proteggere i dati dei cittadini è un inventario di tutti i dispositivi connessi, assicurandosi che siano installati con configurazioni di sicurezza hardened e questo, ovviamente, include anche le stampanti.

Una raccomandazione simile fanno anche i Controlli Essenziali di Cybersecurity del CIS Sapienza. Il primo dei 15 controlli per le piccole e medie imprese si riferisce proprio all’esistenza e alla corretta gestione di un inventario aggiornato dei dispositivi in uso all’interno del perimetro aziendale. È più  probabile che una PMI italiana abbia una stampante piuttosto che altri dispositivi IoT, quindi proteggere le stampanti diventa una parte fondamentale dell’innalzamento dei livelli di sicurezza di tali aziende. Questa operazione a sua volta è un passaggio chiave per la messa in sicurezza delle filiere produttive.

Qual è la situazione attuale? Alcuni dati emersi da recenti statistiche fanno riflettere.  In un campione di intervistati solo il 16% ritiene che le stampanti possano essere altamente vulnerabili a minacce o violazioni della protezione. Inoltre, a livello globale il 61% delle organizzazioni ha segnalato almeno una violazione dei dati correlata alle stampanti nello scorso anno. Stime interne di HP indicano che meno del 2% delle centinaia di milioni di stampanti aziendali in tutto il mondo vengono protette. Quali possono essere le cause?

Ecco alcuni fattori che possono contribuire a questo scenario:
•    I dispositivi forniti da alcuni produttori potrebbero non offrire impostazioni di sicurezza appropriate
•    Le aziende non applicano gli aggiornamenti per la protezione, che spesso richiedono l’installazione manuale
•    La protezione della stampante non viene attivata
•    Le stampanti si trovano all’esterno del firewall di rete
•    I documenti vengono intercettati da un hacker che quindi li invia segretamente al proprio servizio di archiviazione cloud
•    Gli hacker controllano remotamente una stampante e ritardano la stampa di documenti importanti interferendo con la protezione aziendale.

Cosa possono fare le organizzazioni per rispondere a queste minacce? Per prima cosa, è indispensabile aggiornare in modo proattivo procedure, processi e tecnologie sulla base dei nuovi sviluppi e delle minacce emergenti. I CIO devono rivolgersi al reparto IT e agli esperti di sicurezza informatica per mettere in atto misure volte a ridurre i rischi legati alla protezione dei dati. La valutazione dei rischi associati alle tecnologie e ai crimini informatici per i dispositivi endpoint come stampanti e scanner può contribuire a identificare le potenziali aree problematiche.

Ognuno dei seguenti elementi può indicare la presenza di un problema:
•    Modifiche impreviste/non autorizzate alle impostazioni di configurazione
•    Dispositivi che richiedono più tempo e larghezza di banda di rete del normale
•    Timestamp non allineati o apparentemente illogici
•    Aumento delle comunicazioni con IP o indirizzi email sconosciuti

Per far fronte a queste minacce, le aziende devono garantire il rispetto dei seguenti requisiti:
•    Le stampanti devono trovarsi dietro il firewall aziendale
•    I dispositivi non aziendali non devono essere autorizzati alla connessione per la stampa
•    È necessario attenersi a una pianificazione per la revisione e l’implementazione degli aggiornamenti del firmware
•    Le opzioni di configurazione della protezione contro gli attacchi informatici offerte dal dispositivo devono essere valutate e implementate.

Con l’intensificazione delle aree d’azione dei pirati informatici, le stampanti potrebbero essere prese di mira sempre più frequentemente. Per questo motivo, è fondamentale che le aziende adottino opportune misure di protezione contro i cyber attacchi anche nelle stampanti aziendali, per ridurre il rischio di violazione dei dati. Con le attuali infrastrutture, già vulnerabili a tutte le forme di crimini informatici, è importante essere consapevoli dei problemi associati alle stampanti per poterli prevenire e gestire nella maniera migliore.

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L’ultima pubblicità di Burger King attiva a distanza i dispositivi Google


Lo spot in onda negli Stati Uniti è pensato per sfruttare la frase di attivazione “OK Google”, ma la casa di Moutain View ha già risolto il problema

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(Foto: Burger King)

(Foto: Burger King)

Un atto di audace sagacia o un inesorabile boomerang dalla traiettoria incredibilmente facile da prevedere? Il tema è l’ultima campagna pubblicitaria di Burger King negli Stati Uniti: uno spot di 15 secondi pensato per fare leva sui dispositivi Android provvisti della ricerca vocale con “Ok Google”.

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Lo spot mostra un impiegato della catena di fast food che per descrivere uno degli hamburger della casa pronuncia la frase di attivazione, per fare in modo che a rispondere al suo posto siano i dispositivi con software Google nelle case degli spettatori.

Nel mirino ci sono gli speaker intelligenti Google Home e tutti gli smartphone Android con l’ascolto attivo anche a schermo spento, che con la frase “Ok Google” prendono vita, ascoltano la richiesta dell’attore in tv (“Che cos’è l’hamburger Whopper“) e la soddisfano leggendo la prima voce scovata dal motore di ricerca, una pagina su Wikipedia probabilmente modificata preventivamente da Burger King per trarre vantaggio della situazione.

La mossa non è piaciuta: prima di tutto ai proprietari dei dispositivi in questione, che si sono visti invasi da un messaggio in grado di superare lo schermo televisivo e infilarsi nell’arredamento di casa o addirittura nello smartphone; in secondo luogo a Google, che si è fatta veicolo di una campagna pubblicitaria altrui, peraltro piuttosto fastidiosa.

Diverse le reazioni: sui social network gli utenti non hanno tardato a far trasparire la propria opinione; lato Wikipedia è partita una corsa selvaggia per modificare la descrizione dell’hamburger aggiungendovi i peggiori ingredienti sulla faccia del pianeta; da parte della casa di Mountain View infine il silenzio: gli sviluppatori si sono limitati ad applicare una pezza riparatrice agli algoritmi di riconoscimento di “Ok Google”, che hanno già smesso di rispondere alle richieste del comando in arrivo dalla pubblicità incriminata.

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Eddie Murphy farà Un principe cerca moglie 2


L’attore Eddie Murphy riprenderà il ruolo del principe di Zamunda che aveva interpretato nel blockbuster del 1988. Ne sentivamo davvero il bisogno?

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Dev’essere stata una giornata complessa quella di ieri per Eddie Murphy: da una parte la notizia della morte del fratello Charlie Murphy, dall’altra la conferma che il sequel del suo Un principe cerca moglie si farà. La produzione del film infatti è iniziata alla Paramount e Murphy si riunirà con i due sceneggiatori originali, Barry Blaustein e David Sheffield.

Quando uscì nel 1988, Un principe cerca moglie, diretto dal maestro delle commedie John Landis (già al timone di Blues Brothers e Una poltrona per due), fu un blockbuster: al centro delle vicende Akeem, il principe del regno africano di Zamunda interpretato da Murphy, che al compimento del ventunesimo anno di età decide di andare nel Queens di New York a cercare la sua futura sposa. Ancora non è chiara invece quale sarà la storia al centro del seguito, anche se nel frattempo Akeem sarà probabilmente diventato re.

Il film ebbe grande successo al botteghino, sia negli Stati Uniti che nel mondo, ma i progetti per una continuazione, pur programmati, furono rimandati più volte, mentre anche la carriera di Murphy subiva alterne vicende. Sarà l’occasione del riscatto per il re di Zamunda?

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La Russia non parteciperà all’Eurovision Song Contest 2017


Nonostante le proteste dell’Ebu, la cantante russa scelta per la competizione non potrà recarsi a Kiev

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Ora è ufficiale: dopo le polemiche e le trattative delle ultime settimane, la Russia ha ritirato la sua partecipazione all’Eurovision Song Contest 2017, la manifestazione canora che si terrà in maggio a Kiev. Lo scorso marzo, infatti, l’Ucraina, paese ospitante l’evento dopo aver vinto l’edizione del 2016, aveva vietato l’ingresso alla cantante designata dal canale russo Channel One.

Julia Samoylova, 27enne ex finalista dell’X Factor russo, su una sedia a rotelle per via di un’atrofia muscolare spinale, avrebbe partecipato due anni fa a uno spettacolo nella Crimea occupata dall’esercito russo. Il suo ingresso in Ucraina è stato dunque vietato per tre anni, come prevede la legislazione ucraina per le personalità filo-russe. L’European Broadcasting Union, che organizza l’Eurovision, aveva proposto alla Russia due alternative, quella di una partecipazione via satellite e quella di una sostituzione, entrambe però respinte.

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Le tensioni fra i due paesi erano iniziate già l’anno scorso, quando la competizione canora era stata vinta da 1944 di Jamala, canzone sulla deportazione dei tatari dalla Crimea da parte dell’Urss. L’Eurovision Song Contest si svolgerà quindi quest’anno con 42 nazioni partecipanti, nonostante le rimostranze dell’Ebu stessa: “Condanniamo con forza la decisione delle autorità ucraine perché crediamo che ciò mini gravemente l’integrità e la natura non politica dell’evento“, hanno dichiarato. “La nostra massima priorità rimane comunque quella di produrre uno spettacolare Eurovision Song Contest“.

L’Eurovision Song Contest 2017 si terrà dunque dal 9 al 13 maggio prossimi (in Italia trasmesso su Rai4 e Rai1), con un enorme dispiego di misure di sicurezza e nonostante i problemi organizzativi riscontrati negli ultimi mesi.

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Il Times contro Facebook: “Non rimuove i contenuti terroristici”


L’azienda nuovamente messa davanti alle responsabilità di media company: il Times la accusa di non aver rimosso contenuti di matrice terroristica

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facebook

A marzo scorso, un’indagine della Bbc aveva sollevato il problema della mancata rimozione, da parte di Facebook, di contenuti pedopornografici dal sito. Questa volta è il Times a incalzare l’azienda di Zuckerberg, accusata di non aver eliminato contenuti dalla piattaforma di stampo terroristico e pedopornografico.

Per dimostrarlo, il giornalista del quotidiano britannico ha aderito a gruppi che condividevano contenuti illeciti e chiesto l’amicizia a oltre cento profili, scelti tra i sostenitori dell’Isis, dopo aver creato un profilo falso. Le segnalazioni dei post di incitamento all’odio e al terrorismo si sono tradotti in rimozione solo in alcuni casi: quando poi la testata si è palesata nella sua veste ufficiale, Facebook ha eliminato ulteriori contenuti. In seguito all’inchiesta, Menlo Park, per voce di Justin Osofsky (vice presidente Operations), si è detta dispiaciuta per l’accaduto e ha ripetuto quello che ribadisce in questi casi: “Possiamo fare meglio“.

Così Chris Cox quando fu censurata la celebre foto della guerra in Vietnam e così altri dirigenti in seguito a episodi di mancata tempestività o accuratezza nell’intervento. L’assunzione da parte del social network delle proprie responsabilità come media company – dopo aver ammesso di esserlo, a tutti gli effetti – porta l’azienda davanti ad almeno due tipi di problema: il primo di ordine globale (ciò che viola gli standard della community) e il secondo territoriale. Ciò che è vietato in alcuni Paesi, non lo è in altri. Tanto per fare un esempio su tutti, Facebook è stato recentemente convocato dal Pakistan per affrontare le violazioni riguardanti la blasfemia, tema già controverso all’interno del dibattito politico locale.

Nonostante gli sforzi profusi dal punto di vista tecnico, quindi di strumenti preposti alla segnalazione dei contenuti inappropriati, l’azienda è chiamata, da più parti ad affrontare la questione gestionale. Il problema riguarda chiaramente tutti i maggiori protagonisti della rete: YouTube ha da poco dovuto arginare il boicottaggio di alcuni inserzionisti  che avevano visto le loro pubblicità associate a contenuti estremisti.

Anche da Google è arrivata la consapevolezza di “dover fare di più”, così come la richiesta di ausilio all’Intelligenza Artificiale, per il riconoscimento di contenuti illeciti. Facebook sfrutterà questo tipo di riconoscimento per i casi di revenge porn: un sistema di photo-matching eviterà che una foto già rimossa venga diffusa su Facebook stesso, Messenger e Instagram.

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Una strana esplosione nel cuore di Orione


I telescopi dell’Eso hanno immortalato un inedito fenomeno all’interno della nebulosa. Eccolo da vicino in questo video

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Un video ci porta al centro della famosa costellazione di Orione dove, nel bel mezzo di gas incandescenti, polveri e giovani stelle in via di formazione, a oltre 1350 anni luce da noi è in corso uno strano fenomeno luminoso che ha a dir poco colpito gli scienziati.

Si tratta di una misteriosa esplosione, saltata per la prima volta all’occhio dei ricercatori grazie ad Alma, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array dell’Eso, nel deserto di Atacama, ora è in fase di studio e molto probabilmente dovuta allo scontro frontale di due protostelle adolescenti, risalente a circa 500 anni fa.

Ti è piaciuto? Guarda anche perché il cielo non è mai completamente buio.

(Alma, J. Bally/H. Drass et al./N. Risinger. Musica: Johan B. Monell)

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Il nuovo direttore della Cia: “Assange è un codardo e Wikileaks un servizio ostile”


Duro attacco del nuovo direttore della Cia alla piattaforma di Assange che viene definito anche un codardo e un narcisista

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assange
Per il nuovo direttore della Cia Mike Pompeo, WikiLeaks “si muove come un servizio di intelligence ostile e parla come un servizio di intelligence ostile”. Così il direttore della Central Intelligence Agency ha definito la piattaforma di Julian Assange, in un discorso al Center for Strategic and International Studies di Washington.

Secondo Pompeo, “è tempo di definire WikiLeak per quello che è: un servizio di intelligence ostile, non statale, e spesso incitato da attori come la Russia”. Una definizione che non passa inosservata, a un mese dalle rivelazioni del sito di Assange sul modus operandi dell’agenzia attraverso la pubblicazione di documenti secretati. Nel discorso di Pompeo, l’attacco a WikiLeaks segue le affermazioni secondo cui la Cia ha “un reale apprezzamento per la legge e la Costituzione” e sebbene lavori con incredibili strumenti a disposizione non lo fa contro il diritto ma nei limiti della legge.

E secondo Pompeo questa è una delle ragioni per cui “alla Cia troviamo che la celebrazione di entità come WikiLeaks sia profondamente inquietante. Mentre noi facciamo il meglio per raccogliere informazioni su chi pone una minaccia al nostro paese, individui come Assange e Snowden le usano per farsi un nome”. Alla piattaforma dei leaks più nota al mondo Pompeo rinfaccia anche di aver incoraggiato i suoi affiliati a entrare nella Cia per ottenere informazioni e di aver manovrato Chelsea Manning per rubare specifiche informazioni segrete.

Julian Assange sarebbe quindi, secondo Pompeo, un “narcisista che non ha creato nulla di valido e che si affida al lavoro sporco di altri per diventare famoso. Una frode, un codardo nascosto dietro a uno schermo” . Il lavoro in nome della libertà e della privacy invece un paravento per la celebrità in nome del clickbait. Come sottolineato dalla stampa Usa, sembra che le parole di Pompeo si discostino da quelle di apprezzamento usate in passato da Trump, nel corso della campagna presidenziale.

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Guarda l’intervista fotografica a John Wilhelm


Il fotografo e digital artist svizzero ha risposto alle domande di COOPH usando solo fotografie

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La cooperativa di fotografi – nonché rivista di immagini e e-shop – COOPH ha recentemente pubblicato sul suo canale YouTube un’intervista molto originale; nel video Visual Q&A with John Wilhelm – COOPH Photo Stories ha chiesto al fotografo svizzero e digital artist John Wilhelm di rispondere alle domande utilizzando solo immagini, senza l’ausilio delle parole.

Il visual Q&A, questa la tipologia di format utilizzato, mostra l’abilità tecnica di Wilhelm e la spiritualità che anima il fotografo.

Ti è piaciuto? Guarda anche How to: come farsi uno studio fotografico in casa a costo zero.

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Perché le scarpe si slacciano da sole? Ecco la spiegazione scientifica


Per la prima volta un team di Berkeley ci spiega scientificamente come dovremmo annodare le scarpe per non ritrovarcele slacciate

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Non importa quanto tu li abbia stretti: prima o poi i lacci delle tue scarpe decideranno di lasciar andare il nodo, e molto probabilmente proprio nel momento meno opportuno. Ma perché succede? Com’è possibile che, pur non toccandoli per ore, riescano a liberarsi da soli?

Lo ha affrontato scientificamente per la prima volta in uno studio un gruppo di matematici e fisici dell’Università di Berkeley che, utilizzando (tra i vari metodi) una serie di riprese in slow motion, è riuscito a risalire a quali sono i movimenti che conducono al fail.

E no, le informazioni non sono utili solo sul fronte delle calzature: creare nodi resistenti può avere implicazioni in una miriade di settori, come quello della navigazione, in attività sportive come l’arrampicata e, pensate un po’, persino in chirurgia e in genetica, dove i “lacci” in questo caso sono filamenti di dna.

(Science)

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Neox Touring, l’e-bike cittadina che ha voglia di avventura


Ibrido tra una bici da cross e una fat, arriva a 25 km/h e offre 120 km di autonomia

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Dopo l’Innovation Award guadagnato all’Eurobike 2015, Neox lancia ora Touring, un’e-bike ibrida, una via di mezzo tra una bici da cross e una fat che cerca di accontentare tutti e adattarsi a ogni uso.

Basta guardarla per riconoscere le sue due anime. La Touring ha il portapacchi ma le ruote tassellate per lo sterrato, un’estetica maschile ma il tubo superiore più basso per consentire un facile accesso anche alle donne, ha poi gli pneumatici maggiorati che fanno venire voglia di avventura ma anche una sella morbidissima in soft athletic gel perfetta per le passeggiate cittadine.

Essendo una e-bike, a spiccare è ovviamente il motore, un 500 Watt limitato a 250 Watt che consente a questa bici di 25 chili di arrivare a 25 km/h. L’autonomia è di 120 chilometri mentre il display lcd da 3,5 pollici mostra tutte le statistiche di nostro interesse, dalla velocità, ai chilometri totali, passando per il numero del rapporto, lo stato della batteria, i fanali e l’autonomia.

Completano la dotazione il freno a disco anteriore maggiorato da 203 millimetri (il posteriore è da 185 millimetri), i fanali anteriori e posteriori ma soprattutto il manubrio di nuova concezione che può essere regolato e inclinato a piacimento e l’antifurto con il codice Pin. Ovviamente è ammortizzata, una caratteristica imprescindibile sulle bici di fascia alta.

Disponibile nei colori bianco o nero, la Neox Touring può essere acquistata sul sito del produttore a 4.690 euro mentre tra gli optional troviamo il reggi sella idraulico regolabile (175 euro) e la sella Respiro Sport di Selle Royal (78 euro), gli eleganti pedali VP 628 City (18,50 euro) e la batterie supplementare targata Panasonic (565 euro).

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Cosa succede se suoni musica metal per strada?


Hanno provato a rispondere i due consulenti musicali di RiffShop con un esperimento interessante

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RiffShop, un duo di musicisti specializzati in consulenze musicali e insegnamento – nonché YouTuber di una certa fama – hanno recentemente pubblicato il video esperimento Playing Metal on The Streets For $$$ (Suonare musica metal per strada per raccogliere soldi).

Obiettivo dell’esperimento era osservare le reazioni della gente posta all’ascolto inatteso di musica metal, un tipo di sonorità inusuale per le strade e per il repertorio standard di un musicista mendicante.

Ogni venerdì RiffShop pubblica un nuovo video a tema metal, potete seguire le pubblicazioni qui.

Ti è piaciuto? Guarda anche Chi di voi ascolta il social metal?

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Un utente su quattro ha fantasie sessuali su Siri e Alexa


Una ricerca indaga l’approccio dell’utenza alla tecnologia vocale: più della metà degli utenti sogna assistenti più comprensivi, ma per altri la fantasia va oltre la facilità d’uso

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(Foto: Maurizio Pesce / Wired)

Siri (Foto: Maurizio Pesce / Wired)

Gira che ti rigira, sempre là si va a parare: tutti desiderano essere compresi. E se la tecnologia assume contorni antropomorfi, a maggior ragione. Una nuova ricerca dedicata al mondo degli assistenti vocali, intitolata “Speak easy“, condotto da J. Walter Thompson Innovation Group London e Mindshare Futures, non lascia molto margine di dubbio sulla questione.

Il 60% degli utenti di smartphone intervistati sostengono che “se gli assistenti fossero in grado di capirmi esattamente e rispondermi come farebbe un umano, li userei sempre”. Poi, c’è chi va un po’ oltre la naturale propensione alla voglia di essere accolti. Un capitolo della ricerca è dedicato alla bramosia di intimità che gli utenti vanno cercando con Siri e compagnia: più del 37% degli utenti dei comandi vocali dicono che amano così tanto i loro assistenti da desiderare che siano persone reali.

Alzando ancora un po’ l’asticella, il 26% degli utenti conferma di aver avuto fantasie sessuali sulle voci dei propri assistenti vocali.

La ricerca, che ha coinvolto più di 1,000 utenti di smartphone maggiorenni nel Regno e 100 possessori di Amazon Echo, ha svelato anche un altro punto: benché le ricerche vocali – dice Google – rappresentino il 20% delle intere richieste al motore da mobile, sono ancora vissute come una faccenda privata. La tecnologia viene ancora prevalentemente usata in spazi privati: il 22% degli intervistati sostiene che parlare con gli assistenti vocali in pubblico li fa sentire stupidi.

Ormai citare “Her” risulta quasi banale, ma fantasticherie con i sistemi operativi (se hanno una voce gradevole, ancor di più), sono faccenda assodata: come aveva accennato Terry Wise, Vice President Channels & Alliances di Amazon Web Services da Las Vegas, 250mila persone che hanno chiesto in sposa Alexa, l’assistente vocale si Amazon. Una massa di burloni, certamente.

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L’allargamento dell’Unione europea alimenta la fuga dei cervelli?


L’allargamento ad est dell’Europa ha ridotto le collaborazioni internazionali nella ricerca, creando una situazione sbilanciata che potrebbe minare la competività scientifica dell’Unione, spiega uno studio su Science Advances

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ricerca

Li chiamano cervelli in fuga. Quelli che, con laurea, master, o dottorato in tasca, varcano il confine della propria nazione a caccia di posizioni e stipendi che difficilmente riuscirebbero a conquistare in patria. Per necessità, ma anche per fare esperienza. Nell’ottica, condivisa dalla comunità scientifica e condivisibile, che vivere e lavorare fuori dai propri confini non possa che aiutare la formazione del capitale umano. Eppure, almeno guardando all’Unione europea, quello che sta accadendo non è tanto una fuga dei cervelli, quanto più propriamente una riconfigurazione dei cervelli, non proprio bilanciata, che potrebbe minare la competività scientifica in Europa. A sottolinearlo sono due articoli che hanno analizzato il movimento dei cervelli, capitale umano, e di collaborazioni scientifiche, prima e dopo l’allargamento a Est dell’Unione europea del 2004-2007.

L’idea alla base dello studio, spiega a Wired.it Fabio Pammolli del dipartimento di economia e ingegneria industriale del Politecnico di Milano che ha preso parte alle ricerche, era quello di comprendere come un cambiamento istituzionale macroscopico come l’allargamento dell’Ue e quindi l’integrazione del mercati, influenzasse il sistema della ricerca. “Volevamo capire, quantificare, quale fosse l’impatto reale di una mossa così grande sulla mobilità del capitale umano. Vediamo, ci siamo chiesti, se l’ingresso nell’Ue ha avuto degli effetti di temporanea instabilità sugli aspetti legati ai sistemi nazionali di ricerca e innovazione dei paesi coinvolti”, racconta Pammolli.

Per farlo, Pammolli e colleghi hanno deciso di analizzare la struttura delle collaborazioni internazionali dei paesi prima e dopo l’ingresso nell’Unione europea, prendendo in analisi milioni di paper nel periodo compreso tra il 1996 e il 2012. Al tempo stesso i ricercatori hanno analizzato gli investimenti dei governi, mobilità e migrazione dei cervelli. Mettendo insieme i risultati, pubblicati su Science Advances, quello che è emerso chiaramente è che l’allargamento dell’Ue non ha aumentato le collaborazioni internazionali tra i nuovi e i paesi già membri. Anzi: “Abbiamo cercato di stimare quale sarebbe stata l’intensità di queste collaborazioni senza l’integrazione e sarebbe stata maggiore”, precisa al riguardo Pammolli. Come se l’integrazione avesse reso in qualche modo questi paesi meno europei, al meno dal punto di vista delle collaborazioni, di quanto lo sarebbero stati senza l’inclusione nella Ue.

I motivi, continua il ricercatore, non sono del tutto chiari. Uno dei fattori potrebbe però essere però proprio la fuga dei cervelli dai paesi di nuova inclusione, soprattutto in Germania e Regno Unito.

(Foto: Arrieta et al./Carla Schaffer/AAAS)

E, quando un ricercatore si muove, spiegano gli autori del paper, lo fa con tutti i propri legami internazionali, magari per i quali aveva fatto da ponte per il proprio paese. Legami che possono rompersi e con essi le collaborazioni, ipotizzano gli scienziati.

(Foto: Arrieta et al./Carla Schaffer/AAAS)

Un movimento da Est verso Ovest soprattutto, come raccontano anche i dati raccolti da Alexander M.Peterson coautore del paper su Science Advances di uno studio gemello, uscito in contemporanea su Journal of the Royal Society Interface, ma non solo. “Osserviamo una perdita netta di capitale umano da est verso ovest, che rappresenta il 29% della mobilità totale dopo il 2004”, scrivono gli autori, “Tuttavia, la contro-migrazione da ovest verso est è il 7% della mobilità totale nello stesso periodo di tempo”. Un segnale più che di fuga di cervelli, di circolazione di cervelli. E, in qualche modo, di integrazione certo. Con qualche però.

“Quello che il nostro paper suggerisce non è che la ridistribuzione degli scienziati come effetto collaterale dell’allargamento dell’Europa sia un fatto negativo, quanto piuttosto che le modalità con cui si è realizzata hanno portato a uno squilibrio, lasciando aperta la domanda: come facciamo a far sì che i sistemi di ricerca di questi paesi che perdono cervelli riescano a trattenere capitale umano qualificato?”, si chiede Pammolli. Soluzioni magiche il ricercatore e i colleghi non ne hanno. Tentativi di rafforzare strutture e istituzioni di ricerca potrebbero aiutare a ritenere personale qualificato forse, ma quanto osservato dovrebbe soprattutto invitare a riflettere sulla complessità dei meccanismi di aggiustamento in seguito all’allargamento dell’Unione. “Uno degli obiettivi dell’Ue è la convergenza dei paesi per una convergenza di crescita, per aumentare anche la competitività scientifica dell’area europea. Ma quel che vediamo per ora è che l’integrazione sta sì producendo una circolazione dei cervelli, ma con una divergenza di capitale umano qualificato”. Quasi un paradosso, conclude Pammolli. “Malgrado i programmi di ricerca europea, i sistemi di reclutamento, gli stessi hub di ricerca rimangono segregati: il capitale umano si muove ma le infrastrutture e le politiche no”.

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Diventa inviato al live di Lodovica Comello con il Wired Next Fest


Vuoi trasformarti in un inviato di Wired al live di Milano di Lodovica Comello che si terrà la sera di

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lodovica comello

Vuoi trasformarti in un inviato di Wired al live di Milano di Lodovica Comello che si terrà la sera di venerdì 26 maggio al Teatro degli Arcimboldi? Manda una mail con oggetto Wired Contest all’indirizzo infocomello@mnitalia.com con nome, cognome e recapito telefonico: i primi 50 che la invieranno (farà fede la data e l’orario di ricezione delle mail) riceveranno l’ingresso gratuito allo show di Lodovica.

I 50 fortunati prescelti si dovranno presentare nel primo pomeriggio di venerdì 26 maggio al Wired Next Fest (corso Venezia, 55, Milano), per ricevere indicazioni direttamente da Lodovica su cosa fare durante il suo concerto.

Cosa aspetti? Manda una mail con oggetto Wired Contest specificando nome, cognome e recapito telefonico a infocomello@mnitalia.com.

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e-photovoltair, un progetto per adottare un impianto fotovoltaico


Il progetto vincitore dell’Enel Innovation World Cup nel 2016 vuole dare un’alternativa per scommettere sul green ma senza installare un impianto sul tetto

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fotovoltaico

(foto: Getty Images)

Innovare nell’ambito del fotovoltaico non significa solo creare nuovi impianti più performanti o soluzioni avanzate di energy storage, ma anche provare a pensare nuove vie per avvicinare potenziali clienti all’energia rinnovabile. Un progetto che prende il nome di e-photovoltair, creato da un team di giovani professionisti del gruppo Enel, si propone di raggiungere quei clienti che sono interessati all’energia pulita e al fotovoltaico ma che magari non possono installarne uno, perché magari semplicemente non hanno spazio. Per non rinunciare a un’attitudine energetica green o ai vantaggi connessi in termini ambientali, il progetto e-photovoltair permette di adottare un impianto e investirci sopra, anche se non lo si possiede fisicamente.

Il processo è così articolato: si sceglie un impianto tra i progetti e la cifra che si vuole investire: Enel costruisce l’impianto che renderà a chi ci ha investito degli interessi annuali a un dato tasso e dopo otto anni si può riscattare l’intera quota versata. L’investimento è vincolato: il rendimento partirebbe dall’anno successivo alla sottoscrizione del contratto, anche nel caso in cui il progetto dovesse partire dopo e non subito. Sui profitti, ovviamente, si pagano delle tasse: i guadagni dell’investimento però possono essere trasferiti a chiunque (dai parenti agli amici).

A fine periodo, ci si vede restituire tutto il capitale: nel frattempo però si monitora il progetto e si hanno le garanzie che l’impianto stia facendo la sua parte nella produzione di energia green. Il progetto e-photovoltair si è aggiudicato nel 2016 la vittoria nel concorso Enel Innovation World Cup, interno alla stessa azienda: a progettarlo un team costituito da cinque persone, quattro professioniste per aree di competenza (dal marketing alla consulenza legale-finanziaria) e un project leader.

Nell’arco di 8 anni maturerebbe quindi un investimento: ma i vantaggi, in termini anche ambientali, in termini di risparmio di CO2, varrebbero anche per gli altri. Un progetto non ancora in commercio ma a cui il gruppo italiano guarda per valorizzare una soluzione innovativa nata tra le sue mura.

Il sito e-photovoltair.enelenergia.it c’è già, per chi vuole saperne di più, provare a fare una simulazione di investimento o restare aggiornato sui progressi del progetto. Per valutarne portata e impatto, conta anche il giudizio del pubblico.

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Innovare con l’acqua, come si progetta una waterevolution


Bene da tutelare ma anche protagonista di processi innovativi nell’ambito dell’economia circolare. Così il Gruppo Cap vede la risorsa idrica e pensa al futuro

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acqua

(foto: Getty Images)

Guideremo l’auto con il biometano prodotto dai reflui fognari e impareremo a gestire le bombe d’acqua, per rendere i territori sempre più resilienti. Scenari dal prossimo futuro, quello in cui l’acqua sarà un driver di innovazione, in grado di plasmare la città intelligente e di orientare consumi e dinamiche ambientali. Aver smesso di considerare l’acqua un bene come un altro è stata una svolta culturale importante negli ultimi quindici anni, ma un altro cambiamento sta per ricalibrare il senso di questo bene vitale per cittadini e comunità.

La rivoluzione dell’acqua, infatti, è sempre più connessa a sofisticate applicazioni e processi di conversione, in particolare sul fronte di quella di scarto, convertibile in energia, nuovi materiali o concimi per intere aree anche in ambito urbano. Non ci accontenteremo di chiudere il rubinetto e sprecare meno acqua, ma scopriremo le grandi possibilità connesse alla risorsa idrica e alla sua infrastruttura di rete.

Tra i soggetti interessati a guidare il nuovo corso c’è il Gruppo Cap, il gestore del servizio idrico integrato nella Città Metropolitana di Milano: la monoutility lombarda a capitale interamente pubblico è infatti attiva su più fronti per guidare quella che viene definita come una vera e propria waterevolution.

Sono molteplici i progetti che vedono il gruppo impegnato a innovare e investire, confrontandosi anche con altri attori, non solo del territorio. Si tratta spesso di ripensare l’esistente e le prassi: esempio per eccellenza, i fanghi reflui della depurazione. Possono essere la via per creare biometano, grazie a un approccio decisamente decisamente tecnologico e che mira a superare le forme tradizionali di smaltimento.

Il Gruppo Cap ha avviato nell’agosto 2016 un progetto presso il depuratore di Niguarda-Bresso, con il supporto tecnologico di FCA e quello scientifico del Cnr. L’obiettivo è produrre biometano dai fanghi reflui della depurazione, una fonte pulita in grado di alimentare veicoli, di offrire sostenibilità e costi ridotti. Dalla sperimentazione su strada, percorsi almeno 80mila chilometri, si approderà alla valutazione della qualità del biometano prodotto, partendo da prodotti non nobili ma utili per generare una valida alternativa ai carburanti. Secondo le proiezioni del gruppo, il solo depuratore di Bresso-Niguarda potrebbe alimentare 416 veicoli per 20mila chilometri all’anno.

biometano

La mobilità, tuttavia, è solo uno degli ambiti in cui nelle città metropolitane del futuro gli scarti di fogne e depuratori verranno tradotti in energia: dai fertilizzanti alle bioplastiche, i margini sono ampi per alimentare un’economia circolare dove l’elemento di partenza si rigenera e si ripropone sotto altre forme, in un approccio alla produzione e ai consumi che fa dall’estensione del ciclo di vita di uno scarto una chance di business e sostenibilità.

Dalle acque fognarie possono derivare infatti anche i biofertilizzanti, compresi quelli per il largo consumo: anche su questo fronte una sperimentazione è in corso presso l’impianto di depurazione di Cassano d’Adda (Milano). L’obiettivo è approdare, dal trattamento dei fanghi, alla produzione di fertilizzanti da insacchettare e distribuire sul mercato per l’uso diretto. Una trasformazione non pensata per “addetti ai lavori” ma per tutti quelli che hanno abbracciato la rivoluzione verde tra pubblico e privato. Le sensibilità sono cambiate: cittadini e amministrazioni hanno riscoperto che valorizzare il lato green degli spazi cittadini significa ridisegnare il profilo dei centri urbani a un livello molto più profondo e duraturo. Ecco quindi che la cura di giardini, orti urbani e terrazzi non è più un passatempo privato, ma un processo collettivo a cui prendere parte: nel prossimo futuro si potranno concimare gli spazi verdi anche grazie ai nuovi biofertilizzanti, che ci indurranno a rivalutare i reflui fognari.

Decisamente proiettata nel futuro prossimo anche la compartecipazione del Gruppo Cap al progetto di completamento dell’anello di rete in fibra ottica, in collaborazione con la Città Metropolitana di Milano, per cablare il territorio milanese. La fibra ottica, negli ultimi 210 chilometri, approderà quindi direttamente nella rete fognaria: si valorizza così una infrastruttura già esistente e si evita di creare costi e rallentamenti di servizi, a causa dei lavori di smantellamento e ripristino in superficie. Il gruppo non solo provvederà alla posa ma anche alla cura della fibra ottica che, nei collettori fognari, sarà al sicuro dal rischio di manomissioni. Un progetto che dimostra che la sinergia di più attori può produrre vantaggi e nuove vie e lo stesso Gruppo potrà capitalizzare i vantaggi di una tale prossimità alla fibra.

Dalla mobilità al digital divide, i processi connessi alla waterevolution sono complessi, strategici e al tempo stesso vicini ai bisogni dei cittadini comuni, pronti a beneficiarne. Le innovazioni che interessano beni primari e democratici come l’acqua più facilmente stimolano la risposta dal basso, intesa come capacità di abbracciare un nuovo corso e rimettere in discussione precedenti approcci. Nel mentre, meglio godere anche di quei piccoli vantaggi, come la fatturazione digitale, possibile online e anche grazie all’app proprietaria, o la presenza sul territorio di 82 Punti Acqua dedicati per l’assistenza sulle pratiche, opzioni che Cap riserva ai suoi clienti. Perché ogni rivoluzione ha i suoi tempi e le sue opportunità.

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La sonda Cassini scopre idrogeno molecolare su Encelado. Cosa significa?


Su Encelado, la luna di Saturno, ci sono condizioni che potrebbero ospitare la vita, simili a quelle presenti in alcuni ambienti qui sulla Terra. E anche su Europa, il satellite di Giove, si confermerebbe la presenza di getti di vapore. L’annuncio dalla Nasa

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Acqua, tanta. Oltre la Terra, nel Sistema solare. Su Encelado, su Europa, satelliti rispettivamente di Saturno e Giove, osservati speciali. Se ne parla da tempo e oggi, grazie anche a una conferenza in grande stile (come quelle cui ci ha abituato negli ultimi tempi la Nasa), sappiamo qualcosina di più di questi oceani planetari che esisterebbero oltre il nostro pianeta. Sempre al centro delle cronache spaziali per l’importanza che l’acqua riveste nelle forme di vita, come le conosciamo. Sappiamo, per esempio, che quest’acqua nel Sistema solare si manifesta in modo abbastanza simile, con pennacchi di vapore associati a fonti di calore. Su Encelado e su Europa. Ma cerchiamo di entrare nel merito delle scoperte annunciate stasera dall’Agenzia spaziale americana.

Partiamo da Encelado, con le scoperte realizzate grazie alla sonda Cassini della Nasa, che sta per lasciarci. Dopo vent’anni di onorata carriera, a settembre infatti la navicella si tufferà per il gran finale nell’atmosfera di Saturno. Prima di farlo, però, Cassini però porta a casa un altro importante risultato: come annunciato sulle pagine di Science, la sonda ha scoperto la presenza di idrogeno molecolare nei pennacchi che si innalzano da Encelado, una delle lune di Saturno. Una pallina di 500 chilometri di diametro, tra le più ghiotte del Sistema solare. Perché? Su Encelado c’è acqua, sia sotto forma di uno spesso strato ghiacciato che in forma liquida, suppongono gli scienziati e la scoperta di idrogeno molecolare suggerisce che sì, potrebbero esserci condizioni adatte all vita sulla luna del gigante gassoso.

La scoperta di acqua sul satellite di Saturno non è la notizia. L’ipotesi di acqua liquida, di un oceano, sotto la superficie di Encelado risale ormai a qualche anno fa, con l’osservazione di getti di vapore acqueo che si innalzavano in prossimità del polo meridionale del satellite. Le nuove che arrivano da Cassini sulla via del pensionamento riguardano invece la composizione di questo possibile oceano, estrapolata in seguito al passaggio ravvicinato della sonda nei pennacchi di Encelado nel 2015.

Durante quel flyby, il più ravvicinato mai avvenuto sul satellite, il naso della sonda era acceso: lo spettrometro di massa a bordo, uno strumento in grado di pesare i composti e così di identificarne la natura, ha sniffato i vapori e le particelle emesse dai pennacchi. Il risultato? In quei getti che si innalzano dal satellite si trovano, mescolati ad acqua, ammoniaca e metano, idrogeno molecolare e anidride carbonica. Due composti importanti, perché entrambi ingredienti di un processo noto come metanogenesi. Come probabilmente si intuisce dal nome, nella reazione di produce metano, in un processo operato sulla Terra da microrganismi che per questo prendono il nome di metanogenici, che in genere si trovano in ambienti estremi, come le grandi profondità marine. Le fonti più plausibili di questo idrogeno molecolare di Encelado, racconta il team di Hunter Waite del Southwest Research Institute (Texas) a capo dello studio, sono le reazioni idrotermali tra le rocce calde, contenenti minerali e materiali organici, e l’acqua dell’oceano sotto la superficie ghiacciata della luna di Saturno. Un processo diffuso anche sulla Terra, di nuovo, in prossimità delle sorgenti idrotermali.

Ora, ipotizzando che i rapporti osservati da Cassini nei pennacchi tra le sostanze siano gli stessi di quelli nell’oceano, su Encelado saremmo di fronte a una situazione simile a quella presente in alcuni ambienti terrestri, capaci di supportare la vita. E qui sta la parte più succosa della ricerca: su Encelado sarebbero quindi presenti condizioni che potrebbero supportare la vita. “Sebbene non possiamo osservare la vita, abbiamo trovato la presenza di fonti di energia. È come avere un negozio di caramelle per microbi”, continua Waite riferendosi agli ingredienti chimici scoperti sopra Encelado.

Alcuni di questi elementi chimici fanno parte di quelli – carbonio, azoto, idrogeno, ossigeno, zolfo e fosforo – che insieme a una fonte di energia per il metabolismo e all’acqua allo stato liquido sono considerati gli ingredienti base per la vita per come la conosciamo. L’ipotesi di vita su Encelado è sì intrigante, ma tutt’altro che nuova, perché a onor del vero era già stata avanzata in passato. Inoltre, come spesso accade nel caso di scoperte come questa, il bilancio finale è che ne sappiamo ancora poco. Per esempio non è chiaro cosa alimenti queste reazioni sulla luna di Saturno.

Ciò non toglie che lo studio di Waite e colleghi sia un buon passo avanti nel determinare l’abitabilità di Encelado, ribadisce Jeffrey Seewald della Woods Hole Oceanographic Institution in una perspective sullo stesso numero di Science. Altre missioni serviranno a capire se e dove c’è vita altrove nel nostro Sistema solare. Guardando non solo a Marte.

Per esempio a Europa, una delle principali lune di Giove, l’altra grande protagonista della conferenza della Nasa di oggi, che si crede abbia un oceano salato, sotto la sua superficie. Le osservazioni del telescopio spaziale Hubble degli ultimi anni ci avevano rivelato la presenza di pennacchi di vapore. Oggi la scoperta viene confermata: i pennacchi su Europa sarebbero fenomeni reali, ribadisce la Nasa, che si risvegliano a intermittenza nella stessa regione della luna. Questi pennacchi si alzano da una regione insolitamente calda della sua superficie, mappata dalla sonda Galileo, che appare rotta come da una serie di fessure. Caratteristiche queste forse della fuoriuscita dell’acqua dal satellite, un po’ come avviene su Encelado.

I pennacchi sulla luna di Giove, Europa, visti dal telescopio spaziale Hubble a due anni di distanza (Foto:NASA/ESA/STScI/USGS)

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Inflazione, Bolzano è la città più cara d’Italia


Nel capoluogo altoatesino l’aumento dei prezzi del 2,1% comporterà in un anno un aumento di 1136 euro per famiglia. Al secondo posto Milano

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(Foto: Getty Images)

(Foto: Getty Images)

Il capoluogo altoatesino è la città più dispendiosa della nostra penisola. L’inflazione del 2,1% si traduce infatti in un aumento della spesa, per una famiglia di quattro persone, di 1136 euro in 12 mesi. Segue Milano, dove l’inflazione dell’1,8% fa crescere il costo della vita di 924 euro e Trento, dove il rialzo dei prezzi del 2% comporta una maggiore spesa annua di 814 euro. Sono i dati Istat rielaborati dall’Unione Nazionale Consumatori.

L’Istituto nazionale di statistica conferma i dati preliminari relativi all’inflazione di marzo: +1,4% su base annua. Il carrello della spesa invece segna un rialzo del 2,3% (da 3,1 del mese precedente). “Il 39,9% degli italiani –spiegano Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori– non può permettersi una spesa imprevista di 800 euro. Questo vuol dire che hanno difficoltà a riparare l’auto o qualsiasi spesa non ordinaria. Le prestazioni odontoiatriche, ad esempio, rientrano tra quelle che non tutti possono permettersi. Secondo i dati Equitalia, il 53% dei contribuenti ha accumulato pendenze che non superano i 1.000 euro. I poveri assoluti, secondo i dati Istat, sono 4,6 milioni. In generale, c’è un continuo impoverimento delle famiglie e un aumento del costo della vita“.

Fonte: Istat
Fonte: Istat

Giù dal podio (Bolzano, Milano e Trento), nella top ten delle città in cui cresce maggiormente il costo della vita compaiono: Firenze (+782 euro); Trieste (+645 euro); Venezia (+644 euro); Aosta (+581 euro); Torino (+568 euro); Perugia e Bari (+560 euro). Per quanto riguarda l’indice nazionale dei prezzi al consumo (NIC), per una coppia con due figli, la classica famiglia italiana, l’inflazione all’1,4% significa avere un aumento della spesa annuale pari a 532 euro.

Per una coppia con un figlio la stangata è di 500 euro in più su base annua (163 per la spesa di tutti i giorni). Per un pensionato con più di 65 anni, la maggior spesa è pari a 276 euro, 281 euro per un single con meno di 35 anni, 407 euro per una coppia senza figli con meno di 35 anni. “Ogni categoria -conclude Dona- ha naturalmente le sue spese. Un pensionato spende ad esempio di più in alimentazione. Un single che ha meno di 35 anni spende di più in tecnologia. Le persone maggiormente danneggiate dalla crisi sono le coppie con più figli perché c’è una differenza nel tipo di consumo”.

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Milano investe nella manifattura digitale: 10 milioni per fablab e makerspace


Il Comune vara il progetto “Manifattura Milano”: spazi abbandonati saranno offerti a startup innovative per i loro programmi di industria 4.0

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Lo skyline di Milano

Lo skyline di Milano

Milano vara un piano quinquennale per lo sviluppo della manifattura digitale. Con un investimento di dieci milioni di euro, la riapertura di spazi pubblici dismessi, programmi di formazione nelle scuole e l’incrocio con il programma nazionale industria 4.0, bandi regionali e fondi europei, il Comune punta ad aumentare il numero di startup manifatturiere, fablab, makerspace e laboratori artigianali avanzati e attirare nuovi talenti. Milano è già culla di piccole imprese che hanno fatto l’upload dei loro sistemi di produzione, integrando, ad esempio, le stampanti 3D o la robotica. “Nella provincia si trovano 67 delle 797 startup manifatturiere innovative d’Italia”, spiega Michele Angelo Verna, direttore generale di Assolombarda, la confindustria territoriale.

Anche se Milano, come tutte le metropoli del mondo, ha un’economia fortemente sbilanciata sul settore dei servizi, la manifattura è una voce ancora significativa nell’occupazione locale. I dati del Comune indicano che in città operano 36mila imprese e 350mila addetti del manifatturiero, a cui aggiungere 13mila artigiani. È un ingranaggio che contribuisce a un quarto del fatturato cittadino. Tuttavia la crisi degli anni scorsi e la trasformazione dell’industria ha lasciato segni. Se tra il 2015 e il 2016 “Milano ha registrato 43mila occupati in più – osserva Massimo Bonini, segretario della Cgil ambrosiana –, il manifatturiero è calato di 10mila unità”. Assolombarda stima che in tutta Europa la manifattura digitale potrebbe compromettere fino a 8 milioni di posti di lavoro.

Per questo Palazzo Marino ha adottato il programma Manifattura Milano, per accompagnare la città dentro la quarta rivoluzione industriale. L’obiettivo è migliorare l’attrattività della metropoli, sostenere la crescita di un settore consolidato e assicurare nuovi posti di lavoro. Altre città hanno già preso il toro per le corna. Attraverso il piano Ateliers de Paris la capitale francese ha sostenuto la nascita di incubatori di startup in centro e lo sviluppo di industrie avanzate nelle periferie. Barcellona si è messa in rete con altre metropoli come Boston, Tolosa, Shenzhen, Amsterdam, Santiago e Detroit per soluzioni di economia circolare. Londra ha varato la London Craft Week e New York promuove il recupero di insediamenti industriali dismessi.

Manifattura Milano si articola su più piani. Palazzo Marino ha iscritto a bilancio 10 milioni di euro che saranno destinati a progetti di innovazione delle imprese. “Potranno consistere nella rigenerazione di spazi per la manifattura digitale ma non solo”, spiegano dall’ufficio per lo sviluppo economico cittadino. I fondi saranno assegnati attraverso bandi, a partire dal prossimo autunno. Il piano milanese è complementare ad altri programmi, come quello nazionale per l’industria 4.0, i fondi europei 2014-2020 assegnati da Regione Lombardia o il sistema Horizon 2020.

Palazzo Marino, inoltre, sta censendo gli spazi abbandonati in città per renderli disponibili a chi voglia investire. L’idea è di replicare il modello di Base, uno spazio di coworking dove si sono insediate anche agenzie di comunicazione, società di produzione musicale e il laboratorio innovativo di Fondazione Cariplo. Base occupa circa duemila metri quadri, ma il Comune sta pensando anche a spazi più piccoli. “La prima idea sarebbe di lavorare su alcuni edifici municipali vicino alla stazione della metropolitana di Porto di Mare”, spiegano da Palazzo Marino.

A luglio, nel frattempo, si conta di inaugurare il fablab Mhuma, assegnato all’università Luiss, Italia Camp e Fondazione Giacomo Brodolini. È uno spazio di mille metri quadri, tra Corso Como e Brera, a disposizione per startup, makers e lavoratori alla ricerca di un ufficio di coworking. Nel 2018 arriverà in porto lo Smart City Lab, un futuro incubatore di imprese da tremila metri quadri. Lo sta costruendo per 5 milioni di euro Invitalia, società controllata dal ministero dello Sviluppo economico, che poi lo restituirà al Comune di Milano per la gestione. E pochi mesi più tardi a poca distanza aprirà i battenti anche il nuovo quartier generale di Fastweb. A nord, invece, il Politecnico di Milano entro fine anno aprirà uno spazio di Tus, il più grande incubatore di imprese della Cina, per attirare in città investimenti del Dragone.

Palazzo Marino si occuperà anche di censire fablab e makerspace cittadini, creerà un brand e un sito ad hoc del piano Manifattura Milano e firmerà accordi con il ministero dell’Istruzione per fare educazione nelle scuole su making, robotica e digitale. A giugno sarà pubblicato il primo bando per assegnare spazi dismessi in periferia e l’Agenzia metropolitana del lavoro sarà coinvolta per fare formazione specifica sulla nuova industria. “Un programma di manifattura non è così consueto, siamo abituati a vivere le città come flussi di servizi”, osserva l’Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Cristina Tajani. Per il rilancio economico del capoluogo lombardo, tuttavia, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, è convinto che si debba allargare il raggio delle politiche. Ad esempio per risolvere il nodo della casa. “Milano ha un problema residenziale – afferma -. Dobbiamo trovare una formula tale per cui se sei giovane e hai un reddito basso, puoi trovare una casa”.

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DeeDee, ecco come è fatto il nuovo pianeta nano del Sistema solare


Arrivano nuovi indizi sul pianeta nano. Grazie al telescopio Alma, gli astronomi sono riusciti a misurarne grandezza, temperatura e luce riflessa

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(Foto: Alexandra Angelich (NRAO/AUI/NSF)

(Foto: Alexandra Angelich (NRAO/AUI/NSF)

Avrebbe un diametro di circa 635 chilometri e sarebbe freddissimo, a solo circa -243 gradi celsius, poco sopra lo zero assoluto. Sono questi alcuni nuovi dettagli rivelati dal telescopio Alma dell’Osservatorio meridionale europeo (Eso), in Cile, su DeeDee, il pianeta nano che si trova ai confini del nostro Sistema solare, a circa 92 unità astronomiche dal Sole (un’unità astronomica è la distanza media dalla Terra al Sole, pari a circa 150 milioni di chilometri). Il nome ufficiale di Dee Dee, a sua volta derivato da Distant Dwarf (Nano distante), è 2014 UZ224, dal momento che non è stato ancora riconosciuto ufficialmente come un pianeta nano. Le nuove osservazioni, tuttavia, forniranno nuovi importanti indizi sul lontanissimo oggetto, che impiega ben 1.100 anni per completare un’orbita attorno al Sole.

Al di là di Plutone c’è una regione sorprendentemente ricca di corpi planetari. Alcuni sono piuttosto piccoli ma altri, invece, hanno dimensioni per competere con Plutone, se non addirittura essere molto più grandi”, spiega David Gerdes, dell’Università del Michigan e autore principale dell’articolo, pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal Letters. “Poiché questi oggetti sono così lontani e deboli, è incredibilmente difficile rivelarli, figuriamoci studiarli nel dettaglio. Alma, tuttavia, ha capacità uniche che ci hanno permesso di conoscere alcuni dettagli interessanti di questi mondi lontani”.

A scoprirlo, nel 2016, era stato proprio il team di ricercatori di Gerdes, grazie ai dati forniti dal telescopio Blanco, che avevaconsentito agli astronomi di misurare la distanza e le proprietà orbitali di DeeDee, ma non erano stati in grado di determinare le dimensioni o altre caratteristiche fisiche del corpo celeste. Grazie agli strumenti di Alma, ancora più sensibili, il team è stato ora in grado di rilevare il calore (sotto forma di luce di lunghezza d’onda millimetriche) emesso naturalmente dall’oggetto freddo nello Spazio, il che è direttamente proporizionali alle dimensioni del pianeta stesso. “Abbiamo calcolato che questo oggetto sarebbe incredibilmente freddo, circa 30 kelvin, poco superiore allo zero assoluto”, spiega Gerdes. Secondo i dati, inoltre, il pianeta nano avrebbe una forma sferica con un diametro di 635 chilometri, ovvero circa due terzi del pianeta nano Cerere e una superficie che riflette solo circa il 13% della luce solare che lo colpisce.

Questa scoperta è molto emozionante perché dimostra come sia possibile studiare mondi molto distanti da noi, oggetti che si muovono lentamente nel nostro Sistema solare. “Queste stesse tecniche potrebbero essere utilizzate per rilevare anche il fantomatico Pianeta Nove, che potrebbe essere ben più lontano di DeeDee ed Eris”, conclude Gerdes.

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Biglietti dei concerti, le sanzioni dell’Antitrust per il secondary ticketing


L’authority per la concorrenza colpisce Ticketone e altri operatori per negligenze a danno dei consumatori con sanzioni totali da oltre 1 milione di euro

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concerti

(foto: getty images)

Lo scorso ottobre l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) aveva avviato cinque istruttorie per verificare violazioni in relazione alla vendita di biglietti per i concerti nei casi di secondary ticketing. Oggi, come comunica l’authority, sono state erogate sanzioni pari a circa 1,7 milioni di euro.

Secondo il garante, nel procedimento contro TicketOne, il caso partiva dalle segnalazioni per l’esaurimento velocissimo dei biglietti nel mercato primario e la vendita a prezzo maggiorato in quello secondario. Quindi il Garante doveva verificare la diligenza di TicketOne nel suo ruolo di esclusivista per le vendite online: secondo l’authority non ha adottato regole sufficienti per evitare l’acquisto di biglietti con procedure automatizzate e non si è adoperata per evitare gli acquisti plurimi di biglietti prima, o almeno in controlli a posteriori per annullare tali condotte.

Ecco quindi che l’authority ha riscontrato pratiche scorrette e ha inflitto una sanzione da un milione di euro. Da un lato si riconosce che negli eventi di un certo livello la domanda è superiore all’offerta e che alcuni biglietti finiscano sul mercato secondario, ma la dinamica di cui il pubblico si lamenta è dipesa pure dalle concrete procedure adottate da TicketOne. Quest’ultimo, sempre secondo il giudizio dell’Agcm, era tenuto per contratto a disporre misure antibagarinaggio.

Altre quattro istruttorie erano invece aperte per indagare le modalità informative con cui i principali operatori di secondary ticketing (Seatwave, Viagogo, Ticketbis e Mywayticket) operano sul mercato online. In generale, afferma il Garante, si tratta in larga parte di informazione inadeguate veicolate ai consumatori, che pure dovrebbero poter fare acquisiti in piena consapevolezza.

Tra le mancanze, le informazioni relative alle garanzie riconosciute in caso di cancellazione dell’evento oppure lo stesso ruolo di mero mediatore degli operatori sul mercato secondario. Quindi l’authority ha stabilito che le pratiche commerciali fossero scorrette e ha erogato sanzioni complessive pari a 700mila euro.

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Selfie adesivi e modalità “senza mani”: come cambiano le Storie di Instagram


Superata la soglia dei 200 milioni di utenti al giorno, le Storie avranno nuove funzionalità come la possibilità di registrare senza dover tener premuto il tasto sullo schermo

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Sticker Pinning (Foto: Instagram)

Le maschere di Snapchat continuano a non avere rivali, ma le Storie di Instagram stanno cambiando rapidamente. In occasione del traguardo dei 200 i milioni di utenti quotidiani della funzione (a gennaio erano 150 milioni), l’applicazione sta introducendo nuove funzionalità.

I selfie diventano adesivi: “Selfie sticker” permetterà di trasformare un autoscatto per riutilizzarlo, sotto forma di adesivo, in una foto. Un’icona apposita consentirà di creare un mini selfie. Dopo averlo scattato, si potranno applicare motivi diversi e modificarne le dimensioni, per usarlo ovunque all’interno di una Storia.

Gli adesivi come elementi dinamici. Con “Sticker pinning” si può fare un uso più creativo di adesivi, testo, emoji e altro: si potranno “fissare” all’interno di un video, in modo che non restino elementi statici (come adesso). Si potrà fissare più di uno sticker all’interno di un singolo video, e la funzione è applicabile anche ai Boomerang. Ecco come: toccare e tenere premuto l’adesivo, spostarlo sopra un oggetto e confermare toccando “Fissa”.

Modalità “senza tenere premuto”. Una delle più interessanti novità è la possibilità di registrare senza tenere premuto il tasto al centro dello schermo: registrando in questa modalità, si vedrà apparire un timer che indica quanto manca all’inizio.

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Hands free (Foto: Instagram)

Altre novità in arrivo con gli aggiornamenti per iOS e Android a partire dalla versione 10.16 di Instagram, sono quattro nuovi adesivi geolocalizzati per le città (Chicago, Londra, Madrid o Tokyo) e un collegamento rapido agli adesivi più recenti.

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Un’app dimostra quanto tempo stai sul posto di lavoro


La Cisl adotta la tecnologia di Strajob per contrastare il lavoro nero o i finti part time. Il telefonino calcola quanto tempo si trascorre in azienda

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lavoratori di lego

L’anno scorso l’ufficio vertenze della Cisl, uno dei principali sindacati italiani, ha gestito circa 7.500 cause per contratti irregolari. Lavoratori in nero da mesi o anni, part time dietro cui si nascondeva un tempo pieno, pagato però la metà in chiaro e il restante 50% fuori busta, straordinari mai saldati, voucher adoperati in maniera abusiva. Più di un caso su dieci tra le vertenze sindacali transitate dagli uffici della Cisl ha interessato persone che lavoravano a condizioni diverse da quelle dichiarate ufficialmente. “Un bacino di interesse in cui i giovani under 35 sono la maggioranza”, chiosa il sindacato.

Quando si va in causa per un contratto irregolare, dimostrare di aver lavorato e di aver lavorato per le precise ore che si rivendicano diventa strategico. “Il rapporto di lavoro deve essere dimostrato e questo è un tassello fondamentale se si va in contenzioso”, spiega Gualtiero Biondo, che coordina gli uffici vertenze di Cisl in tutta Italia. Ed è qui che entra in gioco un’applicazione per smartphone, una sorta di “cartellino digitale” del lavoratore che non ha un cartellino regolare da timbrare.

Strajob nasce proprio da una vertenza per un contratto irregolare. Luca De Mizio, legale, si trova tra le mani il caso di un parente di un imprenditore nell’automazione industriale, Franco Fontana. E discutendo nasce l’idea di una applicazione che registri e certifichi le ore lavorate. Come? Attraverso un sistema che georeferenzia il dipendente in un punto fisico, che corrisponde al luogo di lavoro, e calcola quanto tempo trascorre all’interno del perimetro selezionato.

Dopo aver scaricato la app il lavoratore disegna con la mano sulla mappa il perimetro dell’area in cui lavora”, spiega Silvia Pugi, che con Fontana ha fondato la società che ha sviluppato Strajob, Lex&Bit. L’area può corrispondere a un edificio, a un isolato o anche a un quartiere e, se si lavora in più zone, si possono indicare più posti di lavoro. A questo punto la app si attiva in automatico quando il lavoratore varca il perimetro e accende il cronometro che misura la permanenza all’interno dell’area di lavoro. “Quando esce – prosegue Pugi – il lavoratore riceve un rapporto direttamente sul suo telefonino con il conteggio delle ore lavorate”. I dati restano in mano al dipendente e sono riservati, senza che il datore di lavoro ne sia a conoscenza.

La app funziona con un sistema di geolocalizzazione Gps e Glonass (una rete di satelliti russa analoga al Gps americano). Attraverso un protocollo Ntp, che sincronizza gli orologi dei computer sul web con uno scarto di 200 secondi, si certificano data e orario di lavoro. I dati sono immagazzinati in un server e cifrati con la tecnica crittografica del secure hash algorithm e comunicati con protocolli coperti. Al momento la app è disponibile solo per Android ed è gratuita. I dati complessivi rimangono immagazzinati per due settimane sul telefonino, ma se al lavoratore serve un rapporto dettagliato e completo, Lex&Brit rilascia i documenti a pagamento. Per questo Cisl Lombardia ha deciso di stipulare una convenzione con la società per dare un accesso scontato a tutti i livelli dei dati.

Il tema è che il datore di lavoro ha sempre avuto strumenti per misurare quanto lavori un dipendente, dal cartellino agli strumenti informatici – osserva Fontana -. La nostra idea è che sia il lavoratore a misurare la sua attività per poter dimostrare quello che fa”.

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Per chiedere l’indicizzazione del tuo sito a Google ti basta scriverlo su Google


Basta autenticarsi con il proprio account e poi scrivere l’indirizzo in un semplice modulo, raggiungibile adesso dal motore di ricerca

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index

In effetti, viene difficile pensare a un luogo migliore in cui sottoporre a Google una richiesta di indicizzazione nel motore di ricerca, se non il motore di ricerca stesso. E infatti. Secondo Searche Engine Land, per chiedere a The Big G di inserire in indice un nuovo indirizzo, basta digitare sul motore di ricerca ” Submit url to Google“: il primo risultato darà accesso a un modulo semplicissimo, con una barra entro la quale digitare l’indirizzo che interessa.

Prima di questa operazione, sarà necessario autenticarsi, inserendo le credenziali del proprio account Google. Dopo di che, basta spuntare il reCaptcha per dimostrare di non essere un computer e via, il gioco è fatto. Almeno, quello lato utente.

Google aggiunge nuovi siti al nostro indice e aggiorna quelli esistenti ogni volta che viene eseguita una scansione del Web. Se disponi di un nuovo URL, tienici aggiornati qui” si legge nel form online.

Ovviamente, spiega Google, non verranno aggiunti tutti gli indirizzi inviati al loro indice e che non è in grado di anticipare tempi e modi, cioè prevedere o garantire la data di visualizzazione o la visualizzazione stessa nell’indice degli url inviati. Insomma, funzionerà come un “abbiamo preso in carica la sua richiesta, le faremo sapere”.

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Prey, la prova in anteprima dell’action game fantascientifico


Siamo volati da Arkane Studios per vedere più da vicino l’action game fantascientifico e tentare di carpirne i segreti dai suoi autori. E con un certo sgomento ci è sembrato credibile. Molto

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Austin, Texas — Il nostro incontro ravvicinato con Prey non potrebbe avvenire in un posto più consono. Non tanto perché i cartelli che da queste parti suggeriscono di non entrare armati nei ristoranti ricordino che il videogioco che siamo invitati a provare in anteprima ha una buona componente bellica, piuttosto perché il titolo con cui Arkane Studios punterà il prossimo 5 maggio ad affiancare un altro successo alla sua punta di diamante, la serie di Dishonored, si muove su una solida premessa narrativa che proprio fra le lande texane ha le sue origini. Distopiche.
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Texas, 22 novembre 1963.

Scampato al tentativo di assassinarlo, il presidente John Fitzgerald Kennedy decide di collaborare con il programma spaziale sovietico e allestire, con il compagno (e alleato) Nikita Krusev, una laboratorio attorno al satellite russo Vorona I, in orbita dal 1958 e ricettacolo di una misteriosa e letale forma di vita aliena, ribattezzata Typhon.

Il progetto congiunto, denominato Programma Kletka, ha l’obiettivo di replicare sugli uomini le prodigiose capacità psico-fisiche del Typhon, una forma di vita leviatanica, costituita da una moltitudine di esseri, in grado di mutare forma e teletrasportarsi. Quando, nel 2032, al progetto governativo si sarà sostituita la potente corporazione privata TranStar, sarà nostro compito — o meglio, del nostro avatar Morgan Yu — scoprire cosa sembri andare storto nel laboratorio orbitante, ormai diventato una città cosmica, la Talos I.

Vero, riassunta così potrebbe sembrare la solita premessa à la Alien (soprattutto Isolation): prendi un luogo chiuso, infilaci un predatore dalla potenza soverchiante e vedi un po’ cosa si inventano le sue prede per sopravvivere. Se non fosse che proprio quell’incipit texano, con il suo muoversi in equilibrio tra fatto storico e fantasia, dirige verso binari differenti.

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È grazie alla credibilità del contesto che la fantascienza di Prey seduce e trova il gancio più efficace per portare dentro il suo universo in pixel. “Siamo partiti da una domanda”, spiega Ricardo Bare, giovane lead designer di Arkane Studios: “Che cosa sarebbe successo se Kennedy fosse sopravvissuto a Dallas e avesse investito nella corsa allo Spazio il doppio di quanto fece in realtà? Per immaginarci la risposta non ci siamo limitati a qualche volo pindarico: quando lavoravamo al gioco molti di noi hanno fatto ricerche in ambito neuro-scientifico — i poteri del Typhon sono psichici —  hanno studiato la tecnologia spaziale e il business delle esplorazioni del cosmo. Per questo molti elementi del gioco, come i neuromod e diverse dissertazioni psicologiche, hanno una base rigorosa. Ovviamente lo spunto iniziale poi è stato distorto, anche grazie al contributo in fase di scrittura di Chris Avellone, per renderlo più divertente e speculativo. Ma in Prey capita spesso di trovare rimandi reali a quel che si vede e si racconta“.

La cosa è chiara fin dai primi minuti di gioco e ne amplifica l’efficacia: il libro in cui si spiega come usare le interfacce analogico digitali l’ha scritto tale Antoniette Sokol, come la tuta spaziale russa; il primo manifesto della TranStar intravisto in un corridoio recupera lo stile grafico della cosmonautica delle origini, quasi l’avesse stampato per omaggiare Yuri Gagarin la Gozistad, la casa editrice dello stato sovietico; dulcis in fundo, durante il tutorial ben integrato nella storia, una serie di test attitudinali sottopone al giocatore il dilemma del carrello, il famoso esperimento mentale di filosofia etica di Philippa Ruth Foot (se doveste scegliere chi investire con un tram, preferireste cinque persone o deviereste verso una?).

Non voglio svelare troppo, ma ci sono posti e momenti in cui la trama dirà di più riguardo a quei test”, spiega Bare.Ciò premesso, credo che uno dei valori principali in Arkane Studios sia fare del mondo di gioco uno dei personaggi migliori della storia. Abbiamo provato a farlo in Dishonored, investendo molto nella città di Dunwall, e lo stesso abbiamo tentato in PreyPer questo ogni minuzia è importante, ogni dettaglio viene studiato da un artista, da un level designer o da un autore per assicurarsi che sia coerente con l’universo di riferimento. L’ambiente di gioco racconta la propria vicenda; perfino quando non ci sono personaggi parlanti in circolazione”.

A proposito, la Talos I, la gigantesca stazione che ospita l’intera avventura e che sempre all’insegna delle credibilità mescola stili architettonici diversi per dire della sua età, è l’elemento che permette ai suoi autori di definire Prey un open space station game: “Ci piace definirlo così non certo perché abbia la stessa estensione di uno Skyrim, sia chiaro, ma perché ne condivide la struttura aperta”.

La Talos I, manifesto orbitante di retrofuturismo e art déco
La Talos I, manifesto orbitante di retrofuturismo e art déco

“In Prey si può andare ovunque, esterno compreso. Esiste una demo in cui si vedono giocatori galleggiare fuori dalla Talos I, in una passeggiata extraveicolare. Abbiamo concesso all’utente un ampio spettro di possibilità, anche nell’approccio all’ambiente di gioco: se per esempio qualcuno volesse tornare nel proprio ufficio qualche piano sopra, ma l’ascensore fosse guasto, potrebbe ripararlo, oppure provare a raggiungere la destinazione passando da fuori. Ogni esperienza sarà diversa da quella altrui“.

Un approccio non limitato agli ambienti e alla loro perlustrazione.

“La cosa che preferisco in Prey sono i mimic, gli alieni aracnidi capaci di mimetizzarsi con l’ambiente. Sono uno degli elementi principali del gioco, sono dappertutto e credo siano parecchio emozionanti, perché non seguono alcun copione: l’intelligenza artificiale prevede possano trasformarsi negli oggetti fisici presenti nel loro ambiente, punto. Il resto delle loro azioni non è previsto dai designer ed è in grado di rendere ogni partita diversa dalla precedente”.

Cosa confermata dalla quarantina di minuti di gioco affrontata: in un livello ambientato nello Psychotronics, un laboratorio segreto, quando giriamo equipaggiati anche con lo Psychoscope potenziato al massimo, una sorta di visore capace di scandagliare l’area circostante e darci ogni informazione utile su quanto inquadrato, gli attacchi dei mimic sono non solo efficaci, ma anche spaventosi. Per non parlare di quelli del Phantom, la forma antropomorfa del Typhon, qualcosa fra gli invasori di Edge of Tomorrow e il Dr. Zero del cartoon Fantaman.

“Tutto è iniziato con Raphael Colantonio, il nostro direttore creativo: voleva che i nostri alieni evocassero qualcosa di sovrannaturale, quasi paranormale. Desiderava che il Typhon, che per inciso riprende il nome mitologico del padre di tutti i mostri, Tisifo o Tisifeo, fosse indecifrabile, motivo per cui una parte del gioco sfrutta gli scanner per rintracciare informazioni preziose e svelare il mistero circa la sua natura“.

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Ed eccola tornare, quell’insistente miscela di rimandi scientifici e invenzione, anche in grado di fare tabula rasa rispetto al Prey originale, il gioco sviluppato nel 2006 da Human Head Studios di cui Arkane riprende quasi nulla. “Viviamo in un’epoca emozionante”, conclude Bare. “Durante lo sviluppo del gioco abbiamo studiato con attenzione i progetti di Blue Origin e quello che sta facendo Elon Musk con SpaceX: sono tutte cose che stanno accadendo adesso e non solo grazie alle agenzie governative. Per la prima volta nella storia, individui e aziende private hanno i mezzi per provare a fare progredire la tecnologia spaziale. Nel mondo immaginato da Prey, semplicemente, questo accade con più rapidità”.

Difficile dire quanto e se sia incoraggiante, visto che il Typhon sembra avere molto a che fare con Morgan Yu, la nostra proiezione su schermo (“si scoprirà di non essere solo sfortunati testimoni di un esperimento in orbita“). Tant’è, ad ascoltare quanto detto da Bare in merito alla nuova era spaziale, sembra quasi di sentire i nostri astronauti, proiettati — e non per gioco — alle imminenti esplorazioni cosmiche.

Nell’attesa, e proprio come in Prey, meglio indirizzare la storia sui binari giusti. E nel Texas del 2017 evitare di sfoggiare il revolver al ristorante.

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Cannes 2017, i film in concorso


Svelata la selezione dei film per l’appuntamento annuale con il meglio del cinema mondiale. Italia fuori dalla lotta per la palma

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cannes
Dal 17 al 28 maggio si terrà la 70esima edizione Festival di Cannes, il più importante al mondo per chi fa cinema. La lista dei film che parteciperanno è stata svelata oggi: il film che aprirà il festival, fuori concorso, Les Fantômes d’Ismaël, di Arnaud Deplechin. Presidente della giuria al Festival sarà il regista spagnolo Pedro Almodovar. Non c’è alcun film italiano in concorso per la Palma d’oro.

Ricapitoliamo i film in gara per la Palma d’oro:

The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach
In the Fade di Fatih Akin
Okja di Bong Joon-Ho
120 Battements par minute di Robin Campillo
The Beguilded di Sofia Coppola
Rodin di Jacques Doillon
Happy End di Michael Haneke
Wonderstruck di Todd Haynes
Le redoutable di Michael Hazanaviucius
Geu-Hu (The day after) di Hong Sangsoo
Hikari (Radiance) di Naomi Kavase
The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos
A Gentle creature di Sergei Loznitsa
Jupiter’s Moon di Kornél Madruczo
Good Time di Benny Safdie & Josh Safdie
L’amant double di Francois Ozon
Nelyubov (Loveless) di Andrey Zvyagintsev
You Were Never Really Here di Lynne Ramsay

Saranno invece in gara nella sezione Un certain regard:

Barbara di Mathieu Amalric
April’s Daughter di Michel Franco
Aala Kaf Ifrit (Beauty and the Dogs) di Kaouther Ben Hania
Fortunata di Sergio Castellitto
En attendant les hirondelles (The Nature of Time) di Karim Moussaoui
Out di Gyorgy Kristof
Western di Valeska Grisebach
Posoki (Directions) di Stephan Komandarev
Dregs di Mohammad Rasoulof
Jeune femme di Léonor Serraille
L’Atelier di Laurent Cantet
Wind River  di Taylor Sheridan
Before We Vanish di Kiyoshi Kurosawa
(Closeness) di Kantemir Balagov
La novia del desierto di Cecilia Atan & Valeria Pivato
Aprés la guerre di Annarita Zambrano

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L’emoji non rispetta la ricetta: Apple cambia l’icona della paella


L’emoji paella non rispettava l’originale ricetta di Valencia: dopo un anno di discussioni sui social media, è arrivato l’aggiornamento

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(Foto: rielaborazione da Emojipedia)

(Foto: rielaborazione da Emojipedia)

Se le parole sono importanti, pure le emoji, non scherzano. Questa volta non si tratta di fraintendimenti dovuti alle diverse piattaforme o interpretazioni delle icone che cambiano rispetto alla cultura di riferimento. Si parla di cucina, e di veridicità dei disegni: Apple ha finalmente risolto il problema dell’emoji -paella, il tipico piatto spagnolo.

L’emoji, archiviata ufficialmente come “Shallow Pan of Food”, ha raggiunto iOS 1.2 nel 2016. Con sorpresa degli autori che la proposero, tuttavia, gli ingredienti mostrati non rispettavano la ricetta originale del piatto, quella di Valencia.

La discussione ha preso piede sui social media, a suon di hashtag #ComboiPaellaEmoji (dopo tutto, se si pensa alla questione cipolla nella carbonara, non c’è niente di nuovo). Jeremy Burge, editor di Emojipedia, ha spiegato che la prima versione sembra essere corretta, fin quando non è stato contattato da uno degli autori che aveva proposto l’icona, Guillermo Navarro, non gli ha spiegato che gli ingredienti mostrati non erano quelli della tradizionale ricetta di Valencia.

Sembra che qualcuno in Apple fosse pronto ad accogliere le richieste e quindi, un anno dopo, via i gamberetti e dentro pollo, varietà di fagioli e fagiolini, limone, riso.

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Va bene lo shopping online, ma siamo pronti a rinunciare ai negozi?


Mettere il like a un abito e indossarlo: è questa la shopping experience ideale. Un giusto mix di digitale e fisicità. E sempre più catene commerciali lo stanno capendo

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È l’ “essere non essere” in salsa shopping: meglio i saldi oggi oppure il “black Friday” domani? Il dilemma che tormenta noi consumatori spinge alcuni commercianti tradizionali a tirar giù definitivamente le saracinesche. “Non c’è sfida”, pensano. Hanno ragione: la competizione tra on e offline, possiamo dirlo, è finita. Sdoganato il tabù di un’impossibile convivenza, fioccano ora i casi in cui il digitale si integra con la vendita tradizionale, promettendo “shopping experience” davvero memorabili.

Per i più intrepidi esploratori dei megastore, ad esempio, la ricerca del prodotto perduto potrebbe diventare semplice ed addirittura divertente, come dimostra il caso di Foyles. La storica libreria britannica ha sviluppato un’applicazione che guida il cliente tra le centinaia di scaffali e le migliaia di titoli del suo multipiano londinese a Charing Cross. Come un navigatore, Foyles Book Search permette al visitatore di recuperare il libro che cerca, senza dover chiedere e soprattutto attendere assistenza.
Il concorrente statunitense Barnes & Noble ha anche installato sui propri scaffali dei dispositivi che consentono ai clienti di ottenere informazioni sui testi.

Le eterne indecise, quelle che prima di acquistare hanno bisogno di conferme, potrebbero ottenerne migliaia in un attimo, senza obbligare amiche, fidanzati, commesse, passanti a rispondere all’annosa domanda: “faccio bene a comprarlo?”. Nei suoi store brasiliani, il retailer tedesco C&A ha implementato il sistema Fashion Like: ogni volta che qualcuno aggiunge un pollice in su ad uno dei capi presenti sulla pagina Facebook di C&A Brazil, il totale dei “like” accumulati appare in tempo reale sul contatore installato sulla gruccia.

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Per i più affezionati clienti entrare in negozio sarà “come essere a casa”: Barneys New York, celebre rivenditore di moda di lusso, ha sviluppato diversi strumenti per offrire contenuti digitali su misura e guidare il cliente verso i prodotti in linea con il suo profilo e lo storico dei suoi acquisti. Nei negozi della designer americana Rebecca Minkoff l’esperienza di acquisto è poi davvero coinvolgente ed emozionante. Attraverso i “digital mirror”, le clienti possono sfogliare il catalogo, selezionare gli abiti che desiderano provare e farseli portare in camerino. Una volta all’interno poi, un analogo specchio digitale suggerisce eventuali altri articoli elementi per completare l’outfit, permette di richiedere un’altra taglia ed addirittura di modificare le impostazioni di luce all’interno del camerino per… vedersi al meglio.

A rendere ancor più sensazionale l’esperienza “in store” contribuiranno infine “augmented reality” (AR) e “virtual reality” (VR). Grazie ad uno schermo per realtà virtuale 4 metri per 2 ed alla tecnologia “sensorial-based”, i visitatori degli showroom Jaguar-Land Rover possono entrare all’interno del modello preferito, visionarlo a 360 gradi, apportare modifiche in tempo reale. Il retailer inglese John Lewis sfrutta la tecnologia AR per consentire ai propri clienti, prima di decidere di acquistare un mobile, di provare a vedere come starebbe in casa propria.

Tra lo shopping da salotto ed il tradizionale “giro di spese” a vincere sarà dunque un’esperienza “ibrida”, il cui vero limite potrebbe essere che il consumatore, perso tra mille suggestioni, finisca per dimenticare cosa voleva davvero comprare.

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Schermo curvo, Samsung pronta alla produzione (limitata) di Galaxy X


Lo smartphone pieghevole della casa coreana è lontano dal lancio, ma la società si sta portando avanti per affinare interfaccia e processi produttivi

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(Foto: GalaxyClub)

(Foto: GalaxyClub)

Galaxy X, l’avveniristico quanto misterioso smartphone sperimentale dei coreani Samsung, potrebbe essere a buon punto. Lo riportan il coreano The Investor, che entrando nello specifico rivelano che i primi sono già stati realizzati e che la società ha già inoltrato gli ordinativi per le componenti necessarie a una produzione in massa.

Lo smartphone non sarà basato, come inizialmente ipotizzato, su un unico display in grado di piegarsi su se stesso, ma su due pannelli OLED da 5 pollici di diagonale ciascuno, connessi da una cerniera che fornirebbe il punto di perno per aprire e chiudere il gadget.

Purtroppo sembra che lo smartphone, almeno nella sua forma attuale, non arriverà sugli scaffali: l’assemblaggio avverrà nel bel mezzo dell’anno, ma la produzione raggiungerà a malapena le 3mila unità. Samsung avrebbe infatti intenzione di portare avanti il progetto con i piedi di piombo: lo scopo sarebbe arrivare al lancio del vero Galaxy X — quello rumoreggiato in precedenza, con singolo schermo OLED pieghevole — utilizzando questa occasione innanzitutto per affinare il processo costruttivo di un gadget così inusuale, ma anche per far toccare il concetto con mano a un pubblico esteso ma controllato, che possa fornire consigli sul miglioramento dell’interfaccia utente senza però esporre la società alle prevedibili critiche che si scatenerebbero al rilascio di un prodotto così acerbo.

Certo è che di notizie sul gadget continueranno a circolarne — sia sotto forma di indiscrezioni come questa, sia direttamente da Samsung. Non appena il gruppo avrà un prodotto da mostrare, non mancherà di aggiornare il suo pubblico come ha fatto con molti dei suoi progetti negli anni.

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Conferenza anti-vaccini alla Camera, in realtà non esiste un’altra verità


L’iniziativa personale di un parlamentare di Mdp si concretizza in una conferenza stampa sui vaccini, che nessuno può impedire. E le premesse scientifiche sono pessime

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(Foto: Douglas Magno/Getty Images)

(Foto: Douglas Magno/Getty Images)

Il 13 aprile 2017 si aggiunge alla lunga lista delle giornate in cui nelle sale delle istituzioni italiane l’antiscienza urla più forte della scienza. Dopo il teatrino su scie chimiche e geoingegneria, questa volta è il turno della disinformazione sui vaccini. Di nuovo. Così all’ora di pranzo, nella sala stampa della Camera dei deputati, va in scena una conferenza che promette di raccontare “l’altra verità” sui vaccini, alla fine ribattezzata più pacatamente Libertà di scelta per vaccinarsi in sicurezza.

Secondo quanto chiarito dai partiti interessati e dalla presidenza della Camera, si tratta di una “iniziativa personale” (e non annunciata) del deputato Adriano Zaccagnini, che dopo essere entrato in Parlamento con il Movimento 5 Stelle milita nel Movimento democratico e progressista (l’Mdp), il partito nato poche settimane fa in seguito alla scissione del Pd.

Al di là delle forti prese di posizione da parte degli esponenti dello stesso Mdp, del ministro della Salute Beatrice Lorenzin e della presidente della Camera Laura Boldrini, emerge ancora una volta che chiunque può organizzare un’iniziativa dalle dichiarate premesse antiscientifiche in Parlamento.

Per rimediare almeno parzialmente al danno, ecco alcune delle questioni, già ampiamente discusse, che sono tornate a emergere in questa occasione.

1. I vaccini NON sono collegati all’autismo
In un’intervista rilasciata a Repubblica, Zaccagnini ha detto che “da alcuni dati ufficiali del governo Usa” sembrerebbe esistere un legame tra vaccini e autismo. Qui su Wired abbiamo già affrontato la questione decine di volte, raccontando come si tratti di una bufala nata in seguito a una delle più celebri frodi scientifiche dell’ultimo secolo. Dei dati a cui si fa riferimento, in particolare, non c’è alcuna traccia.

2. I dati Aifa sulla vaccinovigilanza sono richiedibili
Una delle tesi che giustifica l’iniziativa è la presunta mancanza di trasparenza da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (l’Aifa), che starebbe evitando di diramare i dati in suo possesso sulle (rare) reazioni avverse alle vaccinazioni. In realtà l’attività di vigilanza viene svolta regolarmente, e anzi dal 2014 è stata rafforzata a livello regionale. I dati non sono pubblicati online, è vero, ma è sufficiente inoltrare una richiesta per ottenerli.

3. Perché spacchettare i vaccini?
Altro evergreen dell’antivaccinismo è la tesi secondo cui la somministrazione di più vaccini contemporaneamente sarebbe un inutile rischio per la salute del paziente, soprattutto quando si tratta di bambini. Non ci sono prove scientifiche a sostegno di questa teoria, ma anzi la quasi totalità dei medici sostiene che si potrebbe arrivare fino a migliaia di vaccini iniettati insieme senza aumentare il rischio di complicanze. La somministrazione in una soluzione unica, poi, ha il vantaggio di ridurre il costo complessivo a carico del servizio sanitario nazionale e di rendere più agevole per le famiglie la procedura. Spacchettare i vaccini – azione tecnicamente possibile sono in alcuni casi – vorrebbe dire costringere i genitori a molte più sessioni di vaccinazione.

4. Le solite tesi dei soliti noti
Il medico Salvo Di Grazia sul proprio blog ha cercato di tracciare i profili degli ospiti invitati a intervenire nella conferenza stampa. Si tratta di omeopati, medici che affermano di curare i pazienti con la terapia chelante (una bufala di cui il nostro Stefano Della Casa ha scritto qui), venditori di test anti-tossicologici senza validazione, avvocati che difendono le vittime dei danni da vaccino e politici. Molti di loro hanno già da tempo chiarito la propria posizione contro i vaccini, dunque i contenuti proposti sono un copione già sentito. E non si discuterà solo delle leggi sull’obbligo delle vaccinazioni.

5. Cosa dice il rapporto Signum del 2011?
Secondo quanto scritto dallo stesso Zaccagnini in un post su Facebook, uno dei punti chiave che merita approfondimenti è il rapporto Signum (Studio Impatto Genotossico nelle Unità Militari) elaborato sei anni fa in seguito al monitoraggio dei militari italiani impegnati in Iraq. Sui social Zaccagnini sostiene che “sono stati riscontrati danni al dna (alterazioni ossidative) a causa delle somministrazioni multiple di vaccini, in particolare quelle con più di 5 vaccini insieme”. Dal documento integrale disponibile online si legge però che il fenomeno è stato significativo per la sola popolazione geneticamente suscettibile (pari al 4% circa del campione esaminato), e soprattutto che l’effetto finale è dovuto anche “al carico funzionale indotto nel linfocita rispettivamente dall’attività psico-fisica correlata all’attività di pattugliatore” e “dalle condizioni climatiche”. La conclusione del rapporto è la necessità di studi più approfonditi, ma che non riguardino i vaccini nello specifico bensì in generale “sia le condizioni operative che lo stile di vita durante tali missioni”, che nel complesso possono determinare gli effetti avversi a cui si fa riferimento. Ha senso mettere solo i vaccini sul banco degli imputati e generalizzare la condizione dei militari impegnati in missione a tutta la popolazione?

Chi non si troverebbe d’accordo con il promotore di un’iniziativa che invoca il “diritto di espressione”, una “maggiore sicurezza” per la salute pubblica, una “informazione più completa e chiara” e una più ampia trasparenza nei “giri d’affari delle case farmaceutiche”? Il timore è che questi principi e l’annunciato “approccio intermedio” e bilanciato si traducano nell’ennesima occasione per amplificare bufale scientifiche e alimentare la diffidenza verso le vaccinazioni, sfruttando il megafono delle istituzioni.

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