domenica, Marzo 23, 2025

5 lezioni sul razzismo da ripassare con Dear White People

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È una realtà dura da accettare: dopo otto anni di presidenza Obama e l’avvento assurdo e inaspettato di Trump, non è ancora facile, oggi, essere un cittadino afroamericano negli Stati Uniti. Anzi, le proteste legate a Black Lives Matter e i continui casi di cronaca su giovani di colore arrestati o freddati senza motivo dalla polizia allarmano sempre più.

I media rispondono ovviamente a questo clima di incertezza e di paura: dai dischi di Beyoncé e Kendrick Lamar a serie tv come Black-ish e Atlanta, si può dire che, paradossalmente, mai come oggi abbiamo a disposizione parecchie testimonianze su cosa prova sulla propria pelle la comunità afroamericana. E in questi giorni è arrivata su Netflix anche Dear White People.

La serie, creata da Justin Simien, che già nel 2014 aveva diretto un film dello stesso titolo (e prima ancora un profilo Twitter), narra le vicende di un prestigioso campus americano in cui i pochi studenti di colore cercano di porre l’attenzione sui profondi problemi di razzismo che i colleghi bianchi e le istituzioni vorrebbero invece minimizzare.

Ed è in particolare l’agguerrita protagonista Sam (Logan Browning) a voler scuotere le coscienze rivolgendosi proprio ai “miei carissimi bianchi” tramite un programma sulla radio universitaria.

Breve (appena 10 episodi di mezz’ora ciascuno) ma intensa, Dear White People è una dramedy estremamente brillante, perché riesce a far ridere (solo la parodia di Scandal vale tutta la serie) e pensare al contempo, a volte persino rabbrividire.

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Nei temi e nella struttura, risulta un gioiello di complessità in un mondo che vuole semplificarci verso un’uguaglianza ipocrita e irreale. Ecco alcune delle cose relative al razzismo su cui è bene rinfrescare l’attenzione di tutti noi mentre guardiamo la serie.

1. Ognuno è una storia a sé
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La struttura dei vari episodi, con le sue storie che s’intrecciano, è già una lezione di realismo e onestà narrativa di per sé: ognuno infatti è raccontato attraverso il punto di vista di un personaggio specifico, mostrandoci innanzitutto che la verità, la ragione o il torto non sono mai concetti monolitici. E la stessa comunità nera, spesso considerata come un tutt’uno indistinto, ha all’interno le sue sfumature e le sue divisioni, la cui generalizzazione è il primo sintomo di non accettazione.

Ognuno sembra percepire il razzismo a proprio modo e ognuno va trattato a seconda della propria sensibilità: fra i vari personaggi raccontati ci sono Lionel (DeRon Horton), studente timido con la vocazione al giornalismo che deve affrontare anche le complicazioni sulla sua identità sessuale; Coco (Antoinette Robertson), combattuta fra le sue origini sofferte e l’ambizione di affermarsi anche agli occhi dei bianchi; e poi Troy (Brandon P. Bell), figlio del preside e schiacciato dall’autorità paterna così come dal suo senso del dovere nei confronti della comunità.

L’obiettivo del creatore Simien era proprio quello di mostrare, anche attraverso la lente della satira e dell’ironia, che non tutti i neri sono uguali: “Dobbiamo portare i media a rappresentare l’essere nero non solo come eroico, nel caso di Obama, Oprah e Beyoncé, o tragico come nei fatti di Ferguson“, aveva dichiarato già all’uscita del film. “Non c’è umanità in nessuna di quelle rappresentazioni. Di rado veniamo trattati come essere umani, complicati come chiunque altro“.

2. Tutti siamo un po’ razzisti
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Il focus principale della serie è svelare come anche nelle azioni più banali ci possa essere una venatura razzista: organizzare una festa in cui gli studenti bianchi si travestono da icone della cultura black dipingendosi la faccia non è una carnevalata, ma un’offesa alla tradizione afroamericana e un’appropriazione parodica. Nascondersi dietro alla libertà d’espressione, come fanno gli autori del giornale satirico Pastiche, è un gioco sofistico che perde ben presto di senso.

Ma Dear White People mostra anche una specie di razzismo al contrario, mettendo in evidenza i cortocircuiti di chi aderisce alla causa. Molti degli studenti affermano che non si metterebbero mai con un partner non di colore e la stessa Sam si vergogna a rivelare agli amici di essersi innamorata del bianco Gabe (John Patrick Amedori). E quando un ascoltatore interviene in diretta in trasmissione criticandola, lei gli rinfaccia il suo “privilegio bianco“, sentendosi rispondere però che l’interlocutore era in realtà di colore.

3. Il linguaggio è importante
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Il razzismo corre ovviamente attraverso simboli, immagini e ancora di più attraverso le parole. Gran parte delle vicende sono incentrate su come rivolgersi agli altri in un determinato modo diventi sintomo di ostilità o di incomprensione. E i dialoghi stessi sono costruiti per dimostrare continuamente come vocaboli e riferimenti possano dare l’idea dell’estrema complessità e ricchezza della cultura afroamericana (quasi un idioletto incomprensibile a chi ne è esterno).

C’è un’intera scena, poi, che si svolge attorno all’uso della parola “nigga. Uno studente bianco durante una festa la ripete a voce alta seguendo le parole di una canzone in cui effettivamente compariva: ne nasce un tafferuglio poiché, mentre i neri possono usarla riferiti a sé stessi, non è il caso che ad utilizzarla siano anche altri. Sembra quasi un’assurdità, ma dimostra come l’accoglienza dell’altro si misuri costantemente anche nella sensibilità in cui si scelgono le parole.

4. Non sai cosa vuol dire finché non lo provi
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Proprio in seguito alla scena appena descritta avviene un episodio davvero spiacevole, ma di pregnante attualità: senza grave motivo, un poliziotto punta la pistola solo ed esclusivamente contro lo studente nero, intimandogli di mostrargli i documenti. È una scena potentissima e disarmante, che infonde grande empatia nello spettatore, il quale può solo minimamente immaginare cosa voglia dire dover subire in modo così impotente un tale sopruso discriminatorio da parte dell’autorità che dovrebbe invece proteggere tutti.

Il monologo che conclude il primo episodio è altrettanto emblematico: “Le mie battute non incarcerano i vostri giovani, non rendono poco sicuro camminare nei vostri stessi quartieri,” dice Sam durante il suo programma radiofonico. “Ma le vostre lo fanno: quando ci prende in giro o ci sminuite, date forza a un sistema già esistente, i poliziotti che puntano un’arma contro un nero non vedono un essere umano, ma una caricatura, un teppista, un negro“.

5. Bisogna trovare un equilibrio
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Dear White People ruota attorno a una serie di conflitti: quello fra i bianchi e i neri, quello all’interno dei neri stessi, quello fra gli studenti e le autorità (la polizia, il preside, perfino i finanziatori della scuola). La stessa Sam è così presa dal suo coinvolgimento nella causa che perde di vista sé stessa, la sua vita sociale, perfino la propria storia d’amore.

Eppure la forza di una serie come questa è quella di non ridurre nessun personaggio a uno stereotipo ideologico, ma di dimostrare anche come si venga costantemente salvati dall’interazione con qualcun altro, che smussa i nostri angoli (uno dei personaggi più godibili è proprio l’amica Joelle, che nella serie ha proprio questa funzione). In un momento storico così complicato ci si rende conto che l’integrazione è possibile solo se si giunge a un punto di incontro, anche se è fondamentale non rinunciare alla propria identità in un mondo che invece ci vuol far credere che essere tutti uguali è molto più facile.

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