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L’attacco chimico del 4 aprile 2017, alla città di Khan Sheikhoun, nel Nord della Siria, è stato davvero chimico? A fronte di ricostruzioni che propendono per questa ipotesi, c’è chi ritiene che l’attacco, che ha provocato più di 80 morti e oltre 550 feriti, non si sia basato sull’uso di gas tossici. Piuttosto, si sarebbe trattato di un classico attacco che ha colpito qualche deposito di armi chimiche, nascoste dai ribelli. Provocando, così, l’emissione dei fatali gas tossici. Il che collimerebbe con la smentita da parte del governo di Bashar al-Assad, che ha sempre negato l’utilizzo di armi chimiche sulla zona (ma che ora viene anche accusato di esecuzioni di massa).
Stabilire come sono andate le cose, alle 6:00 italiane di quel giorno, è complesso. La versione più diffusa è quella di un attacco a base di gas tossici, tra cui il temibile sarin, da parte dell’esercito siriano. Ma qualche tempo fa sono emerse nuove prove che confermerebbero questa ricostruzione. Si tratta degli esiti di alcuni test condotti da quattro laboratori, per conto dalla Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (Opcw). I campioni, raccolti su dieci vittime, raccontano di un’esposizione a gas sarin, o un suo derivato. Il che, ovviamente, contrasta con l’accordo di dismissione delle armi chimiche tra Usa e Russia stilato nel 2013, dopo l’attacco di Ghouta che, in quell’anno, provocò centinaia di vittime.
Gli esiti delle analisi, tuttavia, raccontano della presenza di gas nervino, ma non di come questo si sia propagato nella zona. Ed è qui che si apre un cono d’ombra che il mancato invio d’ispettori dell’Onu nel posto non ha aiutato a chiarire. Tanto che Paulo Sergio Pinheiro, a capo del Consiglio Onu sulla Siria, ha affermato che la commissione non ha ancora escluso alcuna versione riguardante le cause di rilascio dell’agente chimico. Mentre la stessa Opcw, al momento, si è rifiutata di accogliere la richiesta di Russia e Iran di inviare una commissione sul luogo della strage, per stilare un completo rapporto su quanto accaduto. Tutto questo non fa che fomentare chi sostiene l’ipotesi di un attacco convenzionale e chi, addirittura, arriva a sostenere che l’esplosione che ha portato alla diffusione del gas nervino sia stata originata direttamente dal terreno (senza attacco aereo), per causare una strage che inducesse gli Stati Uniti a un’azione contro il governo di Bashar al-Assad. Che in effetti avrebbe poi avuto luogo il 9 aprile, con 59 missili lanciati contro la base siriana di Sharyat.
Chi non è convinto dell’attacco da parte del governo, muove come primo dubbio quello politico. Assad, grazie all’aiuto della Russia e dell’Iran, in questo momento sta dominando il conflitto, senza per altro offrire troppo il fianco a interventi militari degli Stati che gli sono contro. Perché mai lanciare un attacco chimico, pronto a gettarlo nell’occhio del ciclone, senza nemmeno una motivazione militare?
Il secondo dubbio nasce dagli effetti dell’attacco sugli individui colpiti. M.I. Ulyanova, Direttore del Dipartimento di non proliferazione e controllo degli armamenti, a una sessione straordinaria del Consiglio esecutivo dall’Opcw ha affermato che il gas sarin, e suoi derivati, provoca un restringimento della pupilla, mentre in tutti gli individui analizzati subito dopo l’attacco la pupilla appare dilatata, che è sintomo dell’esposizione ad altri tipi di sostanze, come potrebbero essere quelle psicotrope.
La terza perplessità è in merito alla capacità produttiva di gas Sarin. Il premio Pulitzer Seymour Hersh ha sempre sostenuto che la Turchia avrebbe fornito armi chimiche ai ribelli siriani al fine di organizzare attacchi che facessero scattare una rappresaglia americana nei confronti di Assad. In questo piano, sempre secondo Hersh, rientrerebbe anche la strage di Ghouta. Del resto, nel 2013 il Consiglio di sicurezza dell’Onu stilò un accordo di distruzione di armi chimiche e relativi centri di produzione siriani. La Siria, dunque, non dovrebbe avere accesso a materiale di questo tipo e l’Onu dovrebbe essersi sincerata proprio del suo smantellamento. In estrema sintesi, secondo alcuni è molto più semplice che siano stati i ribelli ad approvvigionarsi di armi chimiche, rispetto al governo di Assad, e quindi usarle per indurre gli Stati Uniti all’attacco.
Seymour Hersh.
C’è poi il discorso della contaminazione ambientale. L’utilizzo di gas di tipo Sarin non provoca solo danni a chi ne viene colpito per via diretta, ma anche a chi accorre in soccorso. A qualcuno pare molto strano che tutti i soccorritori impegnati nell’assistenza delle vittime dell’attacco di Khan Sheikhoun non fossero schermati in modo opportuno. Il Sarin, infatti, rappresenta un tasso di contaminazione elevatissimo e pericolosità anche a distanza di decine di minuti dal rilascio.
Questo, per dire, è la lo schema di protezione suggerito per approcciare a zone contaminate dal gas. Nella parte bassa del medesimo schema sono riportati anche gli effetti dell’esposizione a gas Sarin senza le dovute protezioni.
Tra quelli che non sono convinti di un attacco da parte del governo siriano c’è anche Daniele Battisti. Ex militare dell’aeronautica, ha acquisito dapprima formazione da specialista CBRN (Chimico Batteriologico Radiologico e Nucleare), per poi entrare nella Legione Straniera dove ha approfondito le proprie competenze in ambito di guerra chimico-batteriologica, sfruttandole anche in contesti operativi come in missioni in Africa Occidentale.
Nel recente caso dell’attacco siriano a Khan Shaykhun ha preso una posizione forte e contraria a quella più diffusa: ce la vuole spiegare?
“In merito ai fatti di Khan Shaikun ho cercato di usare la testa più che la pancia o l’epidermide. In sostanza: se sono vere le immagini ed i filmati trasmessi dai media internazionali e dalle organizzazioni “umanitarie” vicine ai Caschi Bianchi siriani, l’esperienza mi dice che a Khan Shaykun non è stato impiegato né il Sarin né altra neurotossina. Se attacco aereo è stato, non ha nulla a che vedere con l’impiego di armi chimiche”.
Quali sono le motivazioni che la portano a fare una simile affermazione?
“Tutti abbiamo visto le immagini e le foto: corpi straziati, ammassati su ambulanze improvvisate, corpi tenuti stretti dai propri cari in lacrime. E poi qui bambini..un orrore. Eppure, qualcosa di strano c’è in quelle immagini: nessuno di coloro che tocca o manipola quei corpi, nessuno dei soccorritori civili e nemmeno del personale della Mezza luna rossa, indossa alcun dispositivo di protezione individuale. La cosa è assolutamente impossibile in una zona in cui è stato impiegato il Sarin. Il Sarin è una delle più potenti neuro tossine mai sintetizzate, è un gas persistente, in grado di depositarsi nei tessuti per diverse ore successive all’impiego, oltre che di contaminare l’aria della zona sottoposta ad attacco. Non si può entrare in una zona contaminata né manipolare corpi esposti al gas senza una tuta di protezione completa, senza guanti di gomma pluristrato, senza maschera antigas a facciale completo e con filtri al carbone attivo per la bonifica dell’aria. E’ da rilevare, poi, che in presenza di elevate concentrazioni di nervino (Sarin è un gas nervino) la maschera può addirittura risultare inefficace dopo pochi minuti. Inoltre, è fondamentale dotarsi di atropina per inibire gli effetti anticolinoesterasici del gas (le dotazioni NATO prevedono un kit di due siringhe di atropina per ciascun militare da iniettarsi a seguito di contatto col gas a distanza di 15 min ed entro un periodo di esposizione non superiore agli 8min). Nulla di tutto questo si ritrova in quei fotogrammi.
“Altro elemento “strano” è l’esiguità del numero di vittime: per uccidere un uomo di 70kg sono necessari circa 1,7 gr di Sarin in forma liquida; allo stato gassoso (ciò che si ottiene con un bombardamento) è sufficiente una concentrazione inferiore. Il Sarin è un’arma massiva, pensata per uccidere in breve tempo un numero alto di vittime: pensate ai 300.000 curdi uccisi da Saddam durante la guerra del Golfo o al numero sconvolgente (quasi 600.000 vittime) durante la guerra Iran-Iraq. 72 morti sono un numero plausibile di vittime nel caso di utilizzo della tossina in forma liquida al suolo (come dimostra l’attentato terroristico alla metropolitana di Tokyo nel 1996), non certo per un bombardamento dove gli effetti sono decisamente più devastanti”.
Sostiene che, in caso di attacco chimico, chi si avventa sui feriti dovrebbe prendere determinate precauzioni. Il fatto di avventarsi su persone eventualmente contaminate, non potrebbe essere dettato, semplicemente, dalla fretta di soccorrerle?
“In caso di attacco chimico non ci si avventa sui feriti. L’area va messa in quarantena e poi si procede a prestare soccorso ai superstiti dopo aver indossato i dispositivi di protezione e applicando una serie di procedure volte alla bonifica e al trattamento dei corpi. Chi si avventa sui feriti resta contaminato. Se è abbastanza fortunato da sopravvivere, in presenza di gas come il Sarin dovrebbe riportare danni permanenti al sistema nervoso centrale.
“Dunque mi domando: se davvero è stato usato il Sarin e se i superstiti si sono, per umano istinto di protezione, gettati sui feriti, perché non abbiamo assistito ad un numero di vittime più elevato?”.
Non le sembra strano che la Russia abbia dapprima negato, nel modo più assoluto, un attacco, e poi l’abbia confermato ridimensionandone la tipologia?
“La Russia, per quanto ho letto, ha negato che un attacco chimico contro la popolazione vi sia stato e ha invece sostenuto che l’aviazione siriana abbia distrutto un deposito di materiale chimico appartenente ai ribelli islamici anti Assad. La qual cosa è plausibile”.
Ha un’idea su come possano essere dante davvero le cose, quel giorno?
“I 72 morti potrebbero essere vittime dei vapori tossici sprigionati dalla combustione del materiale chimico distrutto. Che è cosa ben diversa che parlare di un attacco diretto alla popolazione civile con l’impiego di Sarin. Dal punto di vista militare e per il diritto internazionale, in questo caso, si potrebbe parlare di “vittime collaterali” di un attacco aereo siriano contro una infrastruttura ribelle (potenzialmente utilizzata per produrre “bombe sporche”). Un po’ come le vittime delle bombe intelligenti americane in Iraq, quando si dimenticano di essere “intelligenti”. Ma prima di tutto andrebbe stabilito se davvero parliamo di aggressione chimica o no e per questo non vedo altro modo che procedere con una commissione d’inchiesta che coinvolga le Nazioni Unite”.
A prescindere da questo evento specifico, l’utilizzo di armi chimiche è un’eventualità così concreta nel conflitto siriano?
“L’utilizzo di armi chimiche convenzionali non mi sembra una opzione concreta in quanto l’unico attore che potrebbe usarle, Assad, non solo non ne possiede più (fu l’amministrazione Obama a confermare al mondo che in Siria non esistevano armi chimiche dopo i fatti del 2013) ma, anche se ne avesse ancora o se le facesse fornire dai Russi, non avrebbe alcun interesse strategico ad usarle. Assad ha praticamente vinto contro Isis e Al Qaeda e la guerra sta giungendo al termine. Semmai potrebbero essere le frange jihadiste e i loro finanziatori a voler screditare il regime di Assad, creando una situazione esplosiva volta a riaprire la partita. Magari con il coinvolgimento diretto di chi ha la potenza militare necessaria a ribaltare le sorti decise dal campo di battaglia.
“Difficile stabilire come siano davvero le cose a Khan Sheikhoun, alle sei del mattino di quel 4 aprile. Per chiarirlo, occorrerà istituire una commissione d’inchiesta in grado di fare chiarezza: in nome di quelle 72 vittime e di una verità su cui pende un equilibrio fin troppo instabile”.
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