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La genialità di Pirati dei Caraibi sta nell’aver trasformato un’attrazione di Disneyland in una saga cinematografica che ha saputo mescolare spirito visionario, un casting azzeccato e l’innato fascino che la figura del pirata esercita sul nostro immaginario.
Nel corso di quattro film però tutta la potenza dirompente del debutto si è piano piano affievolita, forse eccessivamente polarizzata dalla figura di Jack Sparrow, talmente perfetta da oscurare chiunque gli sta vicino. Del resto, non si può fare un film solo su Sparrow, devi avere un buon cattivo, scene d’azione spettacolari, effetti speciali all’altezza e una trama che in qualche modo imiti la camminata di Jack: barcollante, sempre sul punto di cadere, ma che arriva a destinazione divertendo.
Per certi versi l’operazione de La Vendetta di Salazar, in originale “Dead men tell no tales”, ricorda quella di Episodio VII, un ritorno allo spirito originale, con una coppia di giovani idealisti avventurosi come protagonisti, supportati da figure storiche della saga.
Al centro di tutto c’è di nuovo qualcuno che vuole farla pagare a Sparrow e i soliti McGuffin che tutti cercano e inseguono per i sette mari. Tuttavia, rispetto a Star Wars, non assistiamo a una sorta di bignami dei film precedenti, ma a situazioni nuove, assurde e spettacolari in cui ovviamente non può mancare un elemento esoterico. Torna anche la colonna sonora, che non si discosta quasi per niente dal lavoro originale di Zimmer.
Il fulcro della storia è infatti la ricerca da parte del giovane Henry Turner, figlio di Will, del Tridente di Poseidone, oggetto magico in grado di spezzare qualunque maledizione, anche quella che lega il padre all’Olandese Volante.
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In teoria questa storia si era conclusa al termine del terzo capitolo con una scena dopo i titoli di coda, ma facciamo finta che non sia andata così.
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Ad affiancarlo ci sarà Carina Smyth, una sorta di Ipazia in salsa piratesca le cui conoscenze matematiche e astronomiche saranno fondamentali per la riuscita della missione, ma allo stesso tempo la faranno considerare una sorta di strega da condannare a morte.
A complicare la situazione ci sarà l’esercito coloniale, ma soprattutto Salazar, il terribile capitano spagnolo a cui Bardem presta tutta la propria fisicità e che riesce a mantenere alta la tradizione della saga per quanto riguarda i cattivi ben fatti.
Dopo l’introduzione il film decolla quasi subito, trasportando lo spettatore in una sequela di scene sempre più spettacolari e surreali, ma sempre coerenti con la totale mancanza di misura e la voglia di spettacolo che ha caratterizzato la serie nel corso degli anni. Edifici che vengono trainati per la strada in stile Fast & Furious, squali zombie, morti viventi, Jack Sparrow che se la cava per il rotto della cuffia, pirati più buffi che temibili si alternano sotto i riflettori in un continuo ondeggiare tra commedia e azione, tra dramma e risata. Anche qua, come in Guardiani della Galassia Vol 2 torna il tema della paternità e del fatto che alla fine i figli sono di chi li cresce… o di chi li guarda da lontano crescere.
Gli effetti visivi mescolano un saggio uso di comparse e soluzioni pratiche con un buon utilizzo della CGI. In particolare su Salazar, che appare sempre come se fosse sott’acqua, anche quando è in superficie.
Gli appassionati della saga apprezzeranno inoltre la parte dedicata alla genesi del personaggio e del soprannome di Jack Sparrow, ringiovanito digitalmente con un effetto meno posticcio del solito.
La parte più debole per assurdo è proprio l’elemento piratesco classico, gli abbordaggi, le cannonate, gli scontri all’arma bianca. Non che sia completamente assente, ma il fatto di affrontare un esercito di non morti invulnerabili lo rende sicuramente meno incisivo. La storia, pur con tutte le sue stranezze, tiene però botta fino alla fine, sfilacciandosi forse solo un po’ in un finale che si allunga più del necessario.
Joachim Rønning e Espen Sandberg, per la prima volta alle prese con un blockbuster di questa portata, riescono infatti a fare un buon lavoro sul piano della regia. Pur senza l’occhio visionario e barocco di Verbinsky, mettono in scena un’azione che non confonde lo spettatore e rendono giustizia a tutto ciò che accade sullo schermo.
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I più avvezzi al mondo dei videogiochi ricorderanno The Secret of Monkey Island, avventura grafica della LucasArts a tema piratesco ma profondamente segnata da una vena comica surreale. Nello sviluppare l’ambientazione del gioco Ron Gibler, il suo ideatore, si ispirò a due cose: il libro Mari Stregati, che ha anche pesantemente influenzato il quarto capitolo dei Pirati dei Carabi e l’attrazione Disney da cui è partito tutto.
Il legame tra Monkey Island e Pirati dei Caraibi è sempre stato qualcosa di vago, di suggerito, una sorta di storia d’amore fatta di non detti e citazioni più o meno palesi, complice forse anche il fatto che Ted Elliot, sceneggiatore del primo film, aveva in passato collaborato a un possibile adattamento del videogioco.
Questo filo invisibile ne La Vendetta di Salazar diventa una sorta di cima da barca, soprattutto al livello visivo. Ci sono dei momenti in Henry Turner non solo è vestito esattamente come Guybrush Treepwhood, con tanto di camicia bianca, gilet nero e coda bionda, ma ne incarna la parte più idealista e inesperta, così come Carina ha qualcosa che ricorda il carattere e la forza di Elaine Marley. E che dire del fatto che in entrambi i film il principale avversario sia un capitano non morto?
Poi film e videogioco si dividono perché il primo punta deciso verso un stile più cupo ed eroico, ma ci sono comunque alcuni momenti in cui viene gettato un ponte che non sfuggirà agli spettatori più attenti e più geek e che chiude il cerchio delle reciproche influenze.
Sullo scorrere dei titoli di coda (ovviamente aspettate fino alla fine) l’impressione è che La Vendetta di Salazar sia un onesto film d’avventura, che sa mantenere alto il ritmo e dosare bene i suoi elementi, senza che Sparrow prenda troppo il sopravvento ma ricordandosi che è lui l’anima della saga. Le scene finali lasciano l’impressione che si voglia definitivamente tirare in secca il vascello, ma non si sa mai, in fondo le leggende marinare sono tante e ce n’è sempre una da raccontare.
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