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(foto: Parley for the Oceans)
Tulum (Messico) — Il sole non è ancora sorto del tutto: la spiaggia è deserta, fatta eccezione per il sottoscritto — uscito per una nuotata al largo — e per una figura che cammina solitaria lungo il bagnasciuga, bloccandosi di tanto in tanto per raccogliere delle conchiglie. Nella solidarietà che immediatamente si instaura tra vittime del jetlag, l’uomo vestito di nero esibisce il bottino della sua battuta di caccia: nessun guscio o valva, bensì un numero imprecisato di tappi di bottiglia, frammenti di polistirolo, brandelli di reti da pesca e persino ciò che resta di una vecchia infradito sbiadita, giunta sulla spiaggia di Tulum da chissà dove.
Dobbiamo prenderne atto: l’invenzione della plastica è stata un fallimento
“Un’idea di per sé grandiosa, nessuno avrebbe pensato che potesse diventare un simile problema. Eppure guarda qua: stiamo uccidendo il mare e noi stessi“. A parlare è Cyrill Gutsch, designer tedesco trapiantato a New York e fondatore di quella realtà fluida che risponde al nome di Parley for the Oceans.
In parte associazione ambientalista e in parte studio di design, Parley è al contempo brand, acceleratore di imprese, cacciatore di fondi, volontariato ed educazione permanente. Un network che unisce gli scienziati ai creativi, i comunicatori ai capitani di impresa per raggiungere un obiettivo “talmente ambizioso da sembrare lo sproloquio di un’idiota”.
Reinventare la plastica
Gutsch sorride, mentre ci avviamo verso i locali che per quattro giorni ospiteranno la presentazione della nuova campagna promossa da Parley con il supporto di AB InBev, multinazionale attiva nella produzione di bevande alcoliche che detiene il marchio Corona.
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“Non ho fiducia nella politica: si muove troppo lentamente e in questa battaglia non possiamo permettercelo. Per salvare gli oceani dobbiamo agire subito, coinvolgendo chi ha il potere di cambiare le cose rapidamente”, prosegue Gutsch che racconta come la sua adesione alla causa sia nata dall’incontro con il ‘capitano’ Paul Watson, fondatore di Sea Shepherd.
Cyrill Gutsch, fondatore di Parley for the Oceans (foto: Davide Michielin)
Se muore il mare, muore anche l’uomo: uno studio pubblicato su Science nel 2006 da un gruppo di ricercatori capeggiato da Boris Worm della Dalhousie University di Halifax, e annoverato tuttora tra i capisaldi sul tema della sovrapesca, ipotizza il 2048 come termine ultimo per gli oceani. Oltre questa data, i pesci di interesse commerciale saranno solo un ricordo, e con essi, buona parte della vita marina. “L’inquinamento da plastica riduce ulteriormente il tempo a nostra disposizione. Non parliamo di un futuro lontano, ma di un evento che accadrà nel corso della nostra vita”, spiega Gutsch.
Siamo i dinosauri e anche l’asteroide di una catastrofe annunciata
Sono oltre 8 milioni, le tonnellate di plastica che ogni anno finiscono negli oceani. Sospesi nelle correnti, i rifiuti si concentrano in cinque grandi vortici, il più grande dei quali, localizzato nel Pacifico settentrionale, ha generato un’isola di immondizia la cui estensione è, secondo le stime più prudenti, due volte quella dell’Italia. Una volta in acqua la plastica non conosce confini e può raggiungere le spiagge di qualsiasi latitudine. Me lo conferma il fotografo Chris Jordan, che ha dedicato gli ultimi cinque anni a documentarne l’impatto nell’atollo di Midway: “Come suggerisce il nome, Midway sorge a metà strada tra Asia e America. È uno dei luoghi più remoti del pianeta, il rifugio ideale per gli albatros, che infatti qui nidificano”. La foto del piccolo albatros imboccato dalla madre con tappi di plastica ha fatto il giro del mondo, così come quelle delle loro carcasse ricolme di rifiuti. “La plastica non è biodegradabile ma, esposta alla luce del sole, lentamente si decompone in piccoli frammenti che pesci e uccelli scambiano per cibo”. Accumulate nei tessuti, queste microplastiche risalgono la catena alimentare e, di pesce in pesce, raggiungono infine i nostri piatti.
Solo una piccola parte della plastica galleggia sulla superficie dell’oceano, la maggioranza si deposita sui fondali. Tuttavia, la sola frazione che raggiunge le spiagge rappresenta una quantità imponente (foto: Parley for the Oceans)
Prima ancora delle bottiglie, gli oggetti più comuni negli oceani sono i frammenti di reti da pesca (foto: Parley for the Oceans)
Parley Ocean School in azione alle Maldive (foto: Parley for the Oceans)
La maggioranza della plastica oceanica consiste in frammenti di dimensioni inferiori ai 5 millimetri (foto: Davide Michielin)
Sessione di educazione ambientale presso la riserva messicana della biosfera di Sian Ka’an (foto: Davide Michielin)
Iain Kerr, direttore scientifico di Ocean Alliance intento a ripulire un tratto di spiaggia a Sian Ka’an (foto: Davide Michielin)
L’attore Diego Luna è tra i testimonial di Parley (foto: Parley for the Oceans)
L’attore Chris Hemsworth è tra i testimonial di Parley (foto: Parley for the Oceans)
Il surfista Ramon Navarro è tra i testimonial di Parley (foto: Parley for the Oceans)
“Sono sempre stato molto geloso della mia ricetta del ceviche, finché ho scoperto che, di tutti gli ingredienti, quello più segreto era la plastica”, aggiunge tra il serio e il faceto l’attore Diego Luna, già protagonista di Rogue One. Scelto tra i testimonial della campagna, Luna ha partecipato di persona a una delle attività di volontariato per pulire le spiagge di alcune isole delle Maldive. “In quell’occasione mi sono reso conto che siamo letteralmente dipendenti dalla plastica, dalle scarpe allo smartphone. Eppure, quando non ci servono più ci disinteressiamo del loro destino. Dobbiamo cambiare mentalità, a partire dalle piccole scelte quotidiane”. L’evitare quanto più possibile l’utilizzo di nuovi oggetti di plastica è uno dei tre punti su cui si basa la strategia AIR elaborata da Parley: Avoid, cioè evitare la produzione di nuova plastica vergine, preferendo quella riciclata; Intercept cioè intercettare i rifiuti prima che raggiungano il mare; Redesign ovvero stimolare la ricerca di nuovi materiali che, nel lungo periodo, sostituiscano la plastica.
“Questo è l’obiettivo a lungo termine”, conferma Gutsch: “Ma nel frattempo non possiamo stare con le mani in mano”. Perciò ben vengano le iniziative di educazione ambientale così come quelle di pulizia delle spiagge. Proprio dalla collaborazione con Corona nasce il progetto “100 Islands”, il cui obiettivo è proteggere cento isole entro il 2020. Messico e Maldive sono stati i primi paesi interessati da un tour che toccherà anche Australia, Cile, Repubblica Domenicana e Italia. Dopo il matrimonio con Adidas, con il quale l’azienda tedesca si è impegnata a convertire alcuni modelli di sneakers alla plastica riciclata, la partnership con Corona permette a Parley di entrare nel settore del beverage, trionfo dell’imballaggio e dell’usa e getta.
Miguel Patricio, Cyrill Gutsch e Diego Luna (foto: Parley for the Oceans)
La scelta di legarsi a Corona soddisfa tre requisiti fondamentali: un marchio di tendenza noto in tutto il mondo; una birra che fa della vita sulla spiaggia la sua bandiera; una sensibilità ambientale più sviluppata di altre aziende, come testimonia la vendita al dettaglio tramite bottiglie di vetro e imballaggi di cartone. “Abbiamo commissionato a Parley un’analisi dell’intero processo produttivo per capire dove possiamo ridurre il ricorso alla plastica”, dichiara Miguel Patricio, responsabile del marketing di AB InBev. “Anche perché, girare pubblicità su spiagge da cartolina, quando in realtà sono ricoperte da plastica, sarebbe tradire l’essenza stessa di Corona”.
A tirare le fila è sempre Gutsch: “Puntiamo a un cambio di paradigma: la plastica riciclata deve diventare un materiale desiderabile, un bene di lusso: solo così possiamo rendere competitiva la sua filiera”. Un processo forse elitario ma virtuoso, che punta sulla domanda dei consumatori per diffondere e abbassare i costi di produzione della riciclata e al contempo, migliorare la qualità dei materiali. Per questo motivo Gutsch guarda con grande interesse all’Italia, patria dell’alta moda così come dell’automotive di alta fascia.
È tardi per accontentarci di prodotti sostenibili
“Serve una vera e propria innovazione ecologica che porti alla sostituzione della plastica”. Visto da qui, il 2048 non sembra poi così lontano.
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