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Il risultato è un’interpretazione un po’ strozzata, nella quale Hiddleston fa il verso a un Hugh Laurie incupito, evidentemente sotto sforzo nel contenere il proprio egotismo. Altro discorso per Dillane – dall’indole ben più heathcliffiana – che fa del Dr Garrett un giovanotto immaturo ostentatamente arrogante, passionale, invadente e impetuoso, che cela l’insicurezza di sé con atteggiamenti boriosi e aggressivi. Il suo atteggiamento è di quelli che sfidano la pazienza divina, e che finiscono ridimensionati da una (o più) batoste crudeli. La cronaca del risveglio sessuale di Cora, lo studio delle affinità elettive del trio turbato dalla presenza docile e discreta moglie di Will costituiscono una deriva romantica, come accennata, stranamente fredda. A proposito dell’eterea Stella di Clémence Poésy, il momento più suggestivo e iconograficamente memorabile di The Essex Serpent è suo, quando si presta a soggetto di un quadro preraffaelita – a metà tra Ophelia di Millais e Lady of Shalott di Waterhouse -, evanescente e mistico.
Merito del direttore della fotografia David Raedeker, encomiabile per il talento mostrato nell’ammantare la dimensione visiva di un’allure rarefatta, diafana, cupa e mistica. I panorami sfocati e desaturati dal filtro della nebbia, la sensazione di desolazione, afflizione, magia e mistero della marsh inglesi, il fascino gotico nel quale la dimensione del sogno si stempera in quella dell’incubo sono il vero punto di forza della miniserie che fa della suggestione una realtà tangibile. Non vi riveleremo se il mostro biblico esiste davvero o è solo la mera manifestazione delle paure dei locali superstiziosi e stremati dalle sciagure, ma possiamo svelare che quel finale che squarcia il velo della suggestione per restituire la nuda verità è appagante e sconsolante al tempo stess. Ultima cosa, vi diamo il solito consiglio: immergetevi nella britishness della serie mantenendo l’audio originale.