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Nonostante le frecce blu che hanno sorvolato il cielo in occasione del seguito di Top Gun, con Tom Cruise, tornato in forma smagliante, più atletico del solito, a rinverdire lo status un po’ annebbiato dell’imperitura star hollywoodiana che non si arrende al tempo e ripropone un eroismo ideologico quasi anacronistico, Cannes, ancora più che il festival, appare ancora sotto tono. La Croisette non si è ancora del tutto ripresa dallo tsunami della pandemia. Quell’impalpabile atmosfera di mondanità, nell’evento culturale e di spettacolo, tra paillettes, starlette, produttori, networking, mercato, cinema autoriale, manca ancora. Una protagonista del marchè ha definito la parte business not depressed, but quiet. Sicuramente non frizzante e stimolante, “perché non ci sono grandi prodotti da vendere e quelli che ci sono o costano troppo o sono già stati venduti alle piattaforme”.
Tutto appare impalpabile. Niente ‘sac’ per gli accreditati e neppure il catalogo. I biglietti si comprano online, per evitare le file, anche se qui in Francia la mascherina è completamente scomparsa, anche quando al chiuso si riuniscono migliaia di persone. Una Croisette più calma, quindi, meno caotica, maggiormente ordinata, forse a tratti noiosa (in particolare per chi ci viene da almeno due decenni).
I giornalisti sono tornati ad affollare le sale, anche se si nota la mancanza di cinesi e giapponesi (i coreani sono invece molto ben rappresentati, nelle varie sezioni, nel mercato e tra i curiosi), di larghe fette di critica e case di produzioni americani ed, ovviamente, di rappresentanti dell’Europa dell’Est, non unicamente la Russia.
Quello che poteva e doveva essere un grande anniversario, il settantacinquesimo, per forza di cose, si sta delineando come edizione della transizione, del ricollocamento, di una ricerca di identità più definita. Forse alla ricerca di un maggior glamour americano, di un equilibrio irraggiungibile tra cinema d’autore e cinema di genere e spettacolare, senza ripudiare Netflix e le altre piattaforme, arrendendosi di fronte a fatti e trasformazioni non più in essere ma ormai compiute.
Fremaux si ostina a portare in concorso nomi super affidabili, spesso ex vincitori della Palma d’Oro, quest’anno da Mungiu a Ostlund, da Koreeda agli immancabili fratelli Dardenne lasciando sempre meno spazio, nella competizione ufficiale, alla ricerca, alla sorpresa.
Alla fine, nel bilancio finale, conteranno i film, gli eventi, i vincitori, le delusioni e le conferme. Prima che il cinema torni alla sua completa normalità anche in un Paese, che a differenza del nostro, continua ad affollare le sale cinematografiche.
Dopo l’affresco famigliare forse un po’ ombelicale e autoreferenziale, Marx può aspettare, Bellocchio torna a prendere di petto la Storia, con Esterno Notte, ideale prosecuzione, approfondimento, riflessione di Buongiorno notte del 2003. Questo, come quello, tratta del caso Moro, non solo del suo rapimento, dei cinquantacinque giorni in cui il leader della DC fu prigioniero delle Brigate Rosse, ma anche del suo omicidio, del prima, del dopo e del durante. Esterno notte, uscito in questi giorni nelle sale cinematografiche diviso in due parti di circa due ore e mezza ciascuno (prima dell’approdo in Rai quest’autunno) è stato presentato a Cannes nella sua interezza. Cinque ore nella pancia e nell’anima di un Paese, l’Italia, di cui Bellocchio descrive le mille contraddizioni, riassunte proprio nella figura tormentata di Aldo Moro, politico che amava volare alto, che intendeva la politica come arte della persuasione e della simulazione intellettuale ed umana. Bellocchio fonda magnificamente pubblico e privato, le sofferenze di una famiglia che spera fino all’ultimo, unite alle manovre sinistre e ciniche delle varie correnti della DC dell’epoca. Attento a sottolineare tensioni, caricature, pressioni di personaggi come Andreotti, Cossiga. Il PCI e Berlinguer rimangono un po’ sullo sfondo, come in Buongiorno notte. Ad emergere le tenebre della Storia che allungano i loro tentacoli e riemergono in modo impietoso. Vedremo se la programmazione televisiva riuscirà a restituire la forza dell’operazione che è cinematografica, nel ritmo, nella struttura narrativa e visiva dal primo all’ultimo minuto.
L’odissea dell’asinello Eo, dagli spettacoli circensi nella provincia polacca, ai macelli, dalle fattorie per la carne da macello fino ad una tenuta nobiliare in Italia. Jerzy Skolimowsky racconta la dolente parabola di un’animale all’interno di contesti opposti, personaggi agli antipodi. Lo fa con approccio confuso, incerto se sposare la mistica della prima parte, in cui Eo si eleva dalle miserie dell’umanità e di chi la abita, ed un taglio più realista e documentarista, quasi da denuncia, quando filma con occhio crudo le tecniche da macello o il traffico illegale di animali. Un po’ road movie, dialoghi ridotti all’osso ma, in compenso, un’onnipresente colonna sonora fastidiosa e ridondante, Eo è sincero nelle intenzioni di fondo, ma poco riuscito nella sua esecuzione, con momenti involontariamente ridicoli, in particolare la parte finale ambientata in Italia, quando Eo viene accolta dal figlio di una signora benestante (Isabelle Huppert) in una tenuta di campagna.