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Forse per questo la parte più interessante è la prima, quella in cui Moonage Daydream è affascinato da come Bowie lavori sulla sua immagine (della parte antecedente a Ziggy Stardust non fa proprio menzione), lo manipola mentre lui manipola se stesso, lavora in accordo, usa i colori, gira immagini ex novo, si muove intorno a quel che faceva sul palco e sui set fotografici. Ad ogni cambio di look, il documentario cambia un po’ il suo stile, usa i colori, insomma si dà da fare per non avere solo una serie di dichiarazioni date dal suo soggetto nel tempo ma per costruire su quel che lui ha costruito, come qualcuno che suonasse con molta inventiva un cover di un suo brano.
Non solo le immagini (come detto sicuramente la parte che ha preso più lavoro di tutto questo documentario) ma poi anche le parole sono fulminanti. Brett Morgen lavora bene sulla testa di David Bowie, lasciando emergere una chiarezza di pensiero non comune, la capacità fuori dai canoni di una persona truccata come una donna e che dice di essere un alieno, di mostrare un lucidità di ragionamento ed esprimere concetti complessi con frasi molto semplici e una grande economia di parole. È un bel contrappunto con le grida delle ragazze, le folle in visibilio, le provocazioni sul palco e l’atteggiamento glam, cioè tutto quello che associamo solitamente al rock e la maniera in cui vengono raccontati di solito i musicisti. Questo è esattamente quel che serve: qualcosa che attivi nella testa dello spettatore ragionamenti e pensieri sul suo soggetto e quel che ha fatto.
Il problema arriva dopo, quando le performance cambiano, quando il lavoro sulla musica diventa più centrale e Moonage Daydream comincia a raccontare quello, dismettendo l’armamentario visivo e concentrandosi su altro che però non trova. Lì diventa un documentario che funziona ben poco, molto ripetitivo e, è evidente a quel punto, anche molto lungo. Due ore e venti durante le quali, da metà in poi, c’è ben poco di realmente interessante. David Bowie il performance artist che dichiara di aver usato se stesso come una tela e di aver poi smesso; Bowie in cerca di una nuova identità come artista proprio; la svolta più pop; i grandi concerti; il tentativo, come dice lui, di catturare la quintessenza dei propri anni. Tutto molto risaputo, tutto maneggiato in modi molto ordinari e un po’ prolissi.