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Jake Daniels è un personaggio di cui non mi ero accorto prima della scorsa settimana, quando il diciassettenne centrocampista del Blackpool è diventato il primo calciatore professionista in attività a dichiararsi gay dopo Justin Fashanu, condannato a una morte prematura per suicidio nel 1998 a causa delle pressioni di un ambiente profondamente omofobo. Basta fare qualche rapido calcolo su un foglietto di fortuna, per rendersi conto del fatto che questa non dovrebbe essere considerata una sorpresa: secondo le stime più prudenti, la popolazione LGBTQ+ si aggira intorno a una percentuale di una persona su venti e, secondo Fifpro, i calciatori tesserati in Gran Bretagna sono circa sessantacinquemila. Nondimeno, il coming out di Jake Daniels rimane un significativo segnale di cambiamento culturale e la stessa presenza di un giocatore queer in campo dovrebbe contribuire a smentire la ridicola idea che il calcio sia esclusivamente appannaggio di uomini eterosessuali e cisgender.
Sostenere che io sia l'unico tifoso di calcio gay della storia, inadatto a stare sugli spalti e in contrasto con i gusti degli omosessuali, è una battuta ricorrente nei miei confronti. È un'affermazione palesemente falsa: non sono certo l’unico, ma siamo in decine! La battuta rappresenta però un esempio dell'alienazione che la maggior parte delle persone omosessuali prova di fronte al calcio. Al netto dei ricordi traumatici nell’oscurità dei più brutti spogliatoi scolastici, il machismo spinto al parossismo, il fanatismo tribale e l'idolatria delle stelle dello sport possono ancora essere percepiti come antitetici a una cultura che venera le regine del pop e preferisce appassionarsi alle arti.
Da un anno faccio parte di una squadra queer dal nome molto significativo: Stonewall F.C., il muro di pietra. Ogni giovedì, gioco con loro a calcio a 5 (male). Il gruppo è composto da un'ampia rappresentanza di uomini che si identificano in tutto lo spettro queer e da alcuni sostenitori etero, tra cui il mio ormai ventennale migliore amico. Alcuni si considerano culturalmente meno queer, ovvero poco inclini a interessarsi all'arte, alla vita notturna, ai film o ai circoli sociali; altri, come me, sfoggiano la propria queerness sul petto. Il tratto unificante è che tutti noi condividiamo questa coppia di interessi che si presume siano in conflitto, ma troviamo la bellezza e l'identità in entrambi e, anzi, proprio nella loro confluenza. Stonewall non è l'unica compagine LGBTQ+ in circolazione: la London Unity League, in cui giocano esclusivamente formazioni gay, è formata da dieci squadre. E questo solo nella capitale. Il nostro gruppo WhatsApp ha accolto la notizia con emoji di cuori e bandiere arcobaleno. A partire dalla scorsa settimana, ci siamo sentiti tutti un po’ meno outsider.
Il mondo dello sport inglese ha subito etichettato Daniels come un rivoluzionario, un pioniere all'apice di un momento epocale; «coraggioso» è stata la parola d'ordine, ripresa dal tuffatore olimpico Tom Daley, dal portiere del Manchester United David de Gea, dall'ex stella del Manchester United Rio Ferdinand e, di recente, dall'ex calciatore australiano Josh Cavallo. Karren Brady del Sun ha scritto che la notizia non dovrebbe avere tanta importanza, e sono d'accordo con lei, se non fosse per l'ipocrisia di essere stata pubblicata da un tabloid con una storia di pregiudizi anti-queer alle spalle. Una doppiezza resa ancora più irritante dal fatto che l’outing di Fashanu fu sollecitato a suon di quattrini e messo in prima pagina proprio dal Sun.
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La decisione di Daniels ha sicuramente avuto una grande risonanza e si spera che gli permetta di vivere una vita migliore, piena e aperta, ma è proprio questo il punto critico, un po' trascurato della posta in gioco. In realtà non avremmo dovuto aspettare così tanto tempo. Tra i miei amici omosessuali che, come si evince dalla battuta citata, non capiscono le mie inclinazioni calcistiche, sono sempre stato un convinto difensore di questo sport; da un po' di tempo la situazione sta cambiando e a dimostrarlo basta citare l'ondata di iniziative a favore dei gay e dell'inclusione portate avanti da istituzioni e club di alto livello: su tutte la campagna Rainbow Laces e i numerosi gruppi di tifosi LGBTQ+ sostenuti da Arsenal e Manchester United.
Quanto al calcio, è triste che l’ostilità nei confronti delle persone omosessuali sia tanto diffusa e persistente negli stadi, tanto che nel 2022 la presenza di un giocatore dichiaratamente gay sia considerato ancora un evento così significativo. I cori e gli sfottò omofobici non sono finiti nel dimenticatoio. I tifosi del Brighton vengono derisi per i loro fidanzati, in gran parte immaginari, a causa del profilo storico della città considerata una mecca gay. Si è dovuto attendere fino al recente mese di gennaio prima di sancire legalmente il ritornello da stadio «rent boy», l'insulto storicamente rivolto ai giocatori del Chelsea, che il Crown Prosecution Service (CPS), l'ufficio del pubblico ministero britannico, ha definito come un insulto omofobo, avvertendo che chi lo canta potrà essere perseguito per crimini d'odio.
Inoltre, bisogna considerare un’ultima ed elefantiaca questione su cui ruotano un sacco di interessi economici: la prossima Coppa del Mondo, che si terrà alla fine dell'anno, sarà ospitata in Qatar, un paese dove l'omosessualità maschile è ancora punita con il carcere. La sharia prevede la pena di morte anche se non è mai stata applicata. La FIFA ha cercato di ribadire che i tifosi LGBTQ+ sono i benvenuti all'evento, a patto che vengano «rispettate le tradizioni del Qatar».
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Non c'è comunque nulla in grado di dare una giustificazione morale alla scelta di organizzare il più grande torneo sportivo globale in un paese che mira a perseguitare un intero gruppo minoritario. Supponiamo che Daniels sia in lizza a novembre per un posto nella squadra di Gareth Southgate: l'attuale solidarietà resterebbe così viva? Se non fosse che le persone omosessuali sarebbero inevitabilmente accusate di avere rinunciato a un'opportunità d'oro e se non fossimo in pratica già troppo in ritardo, il boicottaggio della Coppa del Mondo sarebbe un nostro obbligo morale. Eppure, si può affermare a ragione che lo sia ancora.
Daniels ha aperto davvero molte porte. L'ottimista che c'è in me vuole pensare che possa essere una specie di diplomatico, capace di inaugurare una nuova era di distensione, in cui i giocatori non dichiarati possano uscire allo scoperto come mai prima d'ora. Detto questo, gli eventi attuali, dalle minacce senza precedenti ai diritti di aborto negli Stati Uniti, alla bestia sempre gorgogliante della transfobia sulle pagine dei nostri giornali nazionali, dimostrano che la storia non procede in linea retta, parafrasando un noto proverbio. Gli ostacoli non mancheranno e l'autocompiacimento continua a essere un rischio molto forte. Sappiamo bene cosa è successo a Fashanu, costretto a togliersi la vita dopo anni di abusi omofobici.
A trent'anni di distanza da quella immensa tragedia, stiamo raggiungendo un minimo grado di accettazione dei giocatori LGBTQ. Daniels resterà esposto alla perversa ignoranza omofoba sia dentro, sia fuori dal campo. Sarà importante capire quanto verrà sostenuto da una comunità più ampia che attualmente si dichiara sensibile e se le istituzioni che oggi sventolano l'arcobaleno riusciranno a impegnarsi veramente e fino in fondo, senza rimangiarsi le loro belle parole per un pugno di dollari.