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Maciej Mroczka ha 42 anni e gestisce un chiosco-furgone che si chiama Syty Wół, ossia Il bue soddisfatto, e opera nei dintorni di Łancut, in Polonia, a circa 80 chilometri dal confine occidentale dell’Ucraina. Mroczka serve hamburger e altri panini, come il Syty, a base di carne, pancetta, rucola e la sua salsa speciale. Nel 2021 è stato candidato agli European Street Food Awards. È super impegnato da aprile a ottobre quando parte con il suo furgone per i festival e gli altri happening all’aperto. «Non abbiamo paura degli eventi di massa», vanta il sito web di Syty Wół. «Siamo in grado di sfamare centinaia di persone durante tutta la serata».
Alla fine di febbraio, Mroczka ha avuto la sua occasione per dimostrarlo. Poco dopo che la Russia aveva invaso l’Ucraina, a Łancut è arrivata la notizia che dal confine nella vicina Korczowa stavano arrivando rifugiati. «Persone esauste per il viaggio, che erano affamate, infreddolite e bisognose di aiuto», mi racconta Mroczka. «Ho deciso che mi sarebbe piaciuto aiutare, forte della mia esperienza. Però, non sapevo esattamente dove andare».
Sorprendentemente squillò il telefono. Era World Central Kitchen, l’organizzazione di aiuti fondata dallo chef ispano-americano José Andrés allo scopo esplicito di coordinare l’energia e la competenza di chef e cuochi in caso di emergenza. Nel decennio scorso, WCK è passata dall’essere l’attività collaterale di un grande chef a un colosso dei soccorsi umanitari, intervenendo in alcune delle principali crisi del nostro tempo — il terremoto del 2010 ad Haiti, l’uragano Maria in Portorico, la pandemia — e infinite altre di entità minore, trasformando così Andrés in una star della filantropia. Pur essendo molto più piccola dei colossi del settore come la Croce Rossa, WCK ha imposto una presenza straordinaria, in parte grazie al suo straordinario leader, e in parte grazie alla strategia di utilizzare risorse locali come ristoranti, cucine, cuochi e furgoni-chioschi.
«Siamo in un certo senso l’Airbnb o l’Uber degli aiuti», mi ha detto Andrés l’inverno scorso.
Mroczka e il suo furgone si sono ritrovati parcheggiati al confine di Korczowa, a servire 1.700 hamburger a sera, pagati da WCK, a un flusso di rifugiati che presto è diventato un fiume. Dovevano fare il turno di notte, che finisce alle 7 del mattino, faceva freddo e il lavoro era sfiancante. «È stato mentalmente difficile perché i rifugiati sono per la maggior parte donne con bambini», racconta Mroczka, che ha due figli suoi. «Tuttavia, la gratitudine e i sorrisi della gente che abbiamo aiutato ci hanno dato una forza e un entusiasmo in più». Dopo 11 giorni, il suo furgone soltanto aveva servito 18.100 pasti.
«Le persone erano straordinarie: persone qualunque che ritenevano di dover fare qualcosa, ed è stato bellissimo da vedere», mi racconta Andrés, qualche settimana dopo. Chiamava da un altro attraversamento di confine, Przemysl, dove WCK continuava a dar da mangiare a un flusso costante di ucraini scappati dalle loro case mentre salivano su autobus destinati a portarli altrove in Polonia e in tutta Europa. A differenza di quanto succede con un uragano, dice, passato il quale le cose migliorano gradualmente ogni giorno, la guerra è uno stillicidio di disastro. «A volte qui può essere molto tranquillo e poi, d’improvviso, è il caos». Canticchia sottovoce un pezzo della Cavalcata delle Valchirie.
A quel punto, era da quasi quattro settimane che Andrés mandava messaggi dalla frontiera dell’Ucraina e da dentro la città devastata dalla guerra. Molti erano i caratteristici selfie che sono diventati una componente fondamentale della narrativa e dell’identità di WCK, e sono spesso tra le prime immagini sul campo che il mondo vede dopo un disastro. Abbiamo visto una panetteria di Lviv che sfornava migliaia di pagnotte per i rifugiati che avevano trovato riparo alla stazione ferroviaria; chef a Kiev che preparavano pyrizhky ripieni di cavoli e patate da mandare agli orfanotrofi; la mensa di Odessa, trasformata in centro di donazione e distribuzione di cibo; le tipiche, gigantesche padelle per paella di WCK riconvertite per enormi quantitativi di borscht e salsa di mele; camion a rimorchio carichi di farina e altri generi di prima necessità, destinati a zone dove i combattimenti sono troppo intensi per installare strutture per cucinare. «Ovunque andiamo in Ucraina… il cibo è al centro della resistenza!», ha twittato Andrés.
Nei mesi precedenti, io e Andrés abbiamo trascorso un po’ di tempo insieme a Chicago, dove stava aprendo due nuovi ristoranti, e nella città dove fa base, Washington D.C., è sembrato che il Covid-19 — durante il quale WCK aveva lanciato un salvagente a circa 2.500 ristoranti in 400 città dell’America, pagandoli per preparare pasti per i bisognosi — sia stata la calamità per cui Andrés e WCK si erano sempre inconsapevolmente preparati. Adesso, sembrava che questo nuovo disastro provocato dall’uomo attirasse e mettesse alla prova la gamma completa delle sue strategie e risorse.
Ho pensato a una conversazione che abbiamo avuto in un freddo pomeriggio di dicembre, in piedi nel patio del suo nuovo ristorante, affacciato su un’ansa del Chicago River. Andrés aveva acceso un sigaro.
«Per come la vedo io, in questo momento con World Central Kitchen ho la rete più grande e più potente di strumenti della storia dell’umanità», ha detto. «Perché, ai miei occhi, ogni cucina è già nostra. E ogni macchina. E ogni barca. E ogni elicottero. Ogni cuoco fa parte del nostro esercito, anche se non lo sa ancora». Ha tirato una boccata. «Non lo dico apertamente, perché la gente penserà che sono pazzo. È solo la mia opinione: siamo la più grande organizzazione della storia dell’umanità. Anche se abbiamo soltanto 75 persone sul libro paga».
Gli chef sono creature precise. Hanno a che fare con cose concrete, basilari. Input e output; materia più energia. Se si gratta la superficie anche del più lirico dei piatti — quello che evoca il calore del sole sul viso o l’abbraccio affettuoso della nonna — si trovano grandezza delle porzioni, analisi dei costi degli alimenti, spese generali e calcolo degli sprechi, tutti espressi in contenitori di plastica contrassegnati con nastro adesivo azzurro. Non si può mangiare una metafora.
Così, quando José Andrés dice che vuole nutrire il mondo non è una figura retorica. Fa sul serio. È diventato famoso sfamando i più fortunati, un eroe sfamando i più sfortunati, e nel frattempo ha fatto del suo meglio per dar da mangiare a tutti. Andrés evoca spesso Tom Joad in Furore: «Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì». Steinbeck, da scrittore, ha utilizzato una metafora; Andrés, essendo uno chef, acquista biglietti aerei. La sua onnipresenza può essere quasi comica: l’attimo prima vieni a sapere di un disastro in una qualche parte del mondo e l’attimo dopo eccolo lì tra le notizie dei tuoi social media.
«È come se fosse dappertutto, in contemporanea», commenta il golfista Sergio García, amico e compatriota di Andrés. «Lo sai che non può essere vero, ma l’impressione è quella». Ci sono attività di cui magari ti sei dimenticato o di cui eri a malapena consapevole: gli equipaggi e i passeggeri bloccati sulle navi da crociera ormeggiate in Giappone e a Oakland proprio all’inizio del Covid; gli incendi nel Bronx e nella Boulder County, in Colorado; tifoni e tsunami nelle Filippine e in Indonesia; l’eruzione vulcanica a La Palma, in Spagna; l’esplosione del deposito di munizioni a Beirut. In estate, gli incendi; in autunno gli uragani. Andrés e il suo team sono così informati sulle tempeste passate che possono sembrare maestre dell’asilo che leggono il registro di classe: Sally, Michael, Laura, Ida, Sandy. Se l’emergenza è diventata la condizione permanente del nostro pianeta, è difficile pensare a un singolo volto più associato agli aiuti di quello di Andrés.
Qualche anno fa, un giornalista gli ha chiesto: Se potesse inventare qualcosa, che cosa sarebbe? «La pentola che dà da mangiare al mondo», ha risposto lui. Quella storia è stata riesumata di recente mentre Andrés era seduto con alcuni dipendenti nel suo ufficio presso la sede centrale del suo ThinkFoodGroup (TFG), a Washington D.C. Mentre tutti ridacchiavano, Andrés ha fatto una pausa e ha considerato di nuovo la pentola magica, di nuovo la fantasiosa scivolata nel pragmatico. «Penso che probabilmente potrebbe succedere», ha detto.
Si poteva avvertire che i dipendenti prendevano nota mentale del fatto che poteva essere una cosa da valutare. Affermare che Andrés vuole dar da mangiare a tutti gli esseri umani sulla Terra non è del tutto preciso, quanto meno non per quanto riguarda gli esseri umani o la Terra: non molto prima della conversazione sulla pentola magica, uno degli chef della divisione R&S che lavorano nella cucina fuori dal suo ufficio aveva aperto una busta sottovuoto grigia per farmi assaggiare un pisto con maiale Ibérico destinato a essere servito durante la missione Ax-1 di Axiom Space alla Stazione spaziale internazionale; non molto tempo dopo, Andrés rifletteva ad alta voce su un altro potenziale fronte della missione: il pet food.
È assurdo. Quasi infantile. Ma i numeri non mentono: dal 2010, World Central Kitchen ha servito quasi 70 milioni di pasti praticamente in ogni angolo del Pianeta. Quella che era un tempo un’organizzazione nonprofit con due dipendenti che offrivano aiuto ad hoc, spesso usando la carta di credito di Andrés, ha raccolto nel 2020 quasi 270 milioni di dollari. Jeff Bezos è sceso dalla sua nave spaziale New Shepard, ancora con il cappello da cowboy in testa, per annunciare una donazione di 100 milioni di dollari ad Andrés da spendere come credeva, parte della quale lo chef ha impegnato da allora per il lavoro in Ucraina. E anche tutto questo è soltanto una piccola parte della visione suprema di Andrés. World Central Kitchen ha recentemente istituito un Fondo per i disastri climatici del valore di 1 miliardo di dollari, per risolvere la causa alla radice di molte delle emergenze che sono chiamati a risolvere. Andrés immagina un Corpo di pronto intervento alimentare a tempo pieno, in tutti gli Stati, simile alla Guardia Nazionale.
Lo chef gestisce anche un impero della ristorazione. ThinkFoodGroup (TFG) occupa tre piani di un edificio nel Penn Quarter, dove ci sono anche sei dei 28 ristoranti gestiti in sette città dell’America, più le Bahamas (con nuovi progetti a Los Angeles e New York in arrivo). Tra questi ci sono il Jaleo, il ristorante che lo ha portato a D.C. all’età di 23 anni e ha inaugurato l’era delle tapas in America, e il minibar, il locale di 12 posti con menu degustazione che è stato tra i primi degli Stati Uniti a utilizzare la gastronomia molecolare che Andrés ha incontrato da giovane cuoco al leggendario El Bulli in Spagna. In uno dei pomeriggi che ho passato qui, l’ufficio brulicava di designer, addetti al marketing, cuochi dedicati a R&S, uno chef in visita da Barcellona per un colloquio per un posto di lavoro, e personale della società appena costituita José Andrés Media. C’era anche un tagliatore professionista di prosciutti spagnolo certificato che mi ha dato la sensazione di starsene semplicemente lì, come un samurai itinerante, nel caso dovesse apparire un prosciutto bisognoso di essere magistralmente scolpito — il che, per essere obiettivi, non sembrava improbabile.
World Central Kitchen, nel frattempo, opera principalmente a distanza, utilizzando una serie di uffici WeWork come sede centrale a Washington. Le due organizzazioni hanno imparato a funzionare senza la presenza fisica del loro leader.
Qualcuno potrebbe vedere certe contraddizioni intrinseche ai due aspetti della vita di Andrés. Se credete che il capitalismo sia la causa di tutti i disastri o quasi, naturali e artificiali, allora è probabile che Andrés non sia il vostro uomo. «Devo guadagnarmi da vivere», dice lui alzando le spalle quando gli chiedo se pensa di abbandonare quella parte della sua vita. Come per tutti i ristoratori in America, sono stati anni duri. Andrés dice di aver perso dal 20 al 30 per cento del suo capitale in TFG durante la pandemia, solo per il fatto di rimanere aperto.
Ammetto un filo di cinismo quando il team di Andrés mi ha invitato a conoscerlo per la prima volta per l’inaugurazione dei suoi nuovi ristoranti a Chicago, invece che per un intervento di WCK. («Adesso tutti vogliono venire a vedere le emergenze», mi ha raccontato in seguito, con un sospiro). Alla fine, sono arrivato a considerare le due metà della vita di Andrés come un prolungamento dell’idea centrale che è il motore di WCK: che il temperamento e le competenze necessarie per dar da mangiare alla gente in un ristorante — imprenditorialità, pragmatismo, improvvisazione, forza, pianificazione e, sì, carisma e celebrità — sono particolarmente adatti per dargli da mangiare anche durante un’emergenza. E che entrambe nascono dallo stesso impulso determinato, essenziale, quasi troppo semplice: nutrire.
C’è una donna in Honduras che pensa che José Andrés potrebbe averle curato il cancro. Una volta, a una partita dei Wizards durante i playoff, ha salvato un uomo che stava soffocando per un pezzo di bratwurst, praticandogli la manovra di Heimlich e poi fondendosi con la folla, senza lasciare alcun indizio sulla sua identità se non lo stile con cui aveva versato alla vittima un bicchiere d’acqua: «Si capiva che lavorava nella ristorazione», raccontò l’uomo al Washington Post. E se nessuno dei due dice che sia andata proprio così, sembra che Andrés non sia stato non responsabile per la vittoria di Sergio García al Masters; Andrés ha solo accettato di venire a cucinare per il golfista se prometteva di vincere finalmente il suo primo major. («Certo che ho promesso», racconta García. «Volevo quel cibo!»).
Ci sono intere isole dei Caraibi dove per Andrés è quasi impossibile comprarsi qualcosa da bere. La più giovane delle sue tre figlie ha chiesto che venisse tolto il logo WCK dalla Jeep di famiglia, perché attirava moltissime persone che volevano ringraziarlo; Andrés borbotta perché adesso prende più multe. Ha trasformato metà del suo seguito sui social media in un comitato di candidatura al Premio Nobel, mentre i suoi seguaci più ardenti puntano alla diretta beatificazione. (È stato in effetti candidato ufficialmente al Nobel nel 2019, dopo il suo lavoro in Portorico per l’uragano Maria). In ogni angolo e spazio libero dei suoi uffici e della sua casa a Bethesda, in Maryland, ci sono pile di premi, citazioni, targhe e altri trofei.
Andrés riceve P.R. positive così continuamente che, a dire la verità, si può quasi perdere di vista il fatto che si tratta di P.R. per il bene che compie infaticabilmente. Come si fa a parlare di un santo? Aiuta il fatto che Andrés non nasconda le sue caratteristiche più mortali. Trascorrendo del tempo con lui si coglie a fondo il senso di un uomo vulcanico, senza filtri. È a turno entusiasmabile e contemplativo, irritabile (o, termine che preferisce, «scontroso») e ispirato, umile e vanaglorioso, generoso con i team di persone incaricate di portare avanti le sue visioni e dimentico delle conseguenze che i suoi impulsi e i suoi piani in costante cambiamento possono avere su di loro. A volte ti senti in compagnia dell’ospite perfetto, a volte come se ti avessero legato ad Achab.
Sono andato al party di inaugurazione dei ristoranti di Andrés a Chicago, che sono impilati uno sull’altro nel nuovo grattacielo della Bank of America. Di sotto, al Bar Mar, specializzato in frutti di mare, gli invitati socializzano sotto l’enorme scultura di un polipo e sbocconcellano sashimi di tonno spagnolo. Di sopra, al Bazaar Meat, le postazioni offrono i classici di Andrés: le olive sferificate che sono ancora un piccolo lampo di gioia; lo zucchero filato al foie gras che è ancora leggermente nauseante. C’è anche, naturalmente, il prosciutto Ibérico, il tesoro spagnolo che Andrés ha la responsabilità non soltanto di aver reso popolare negli Usa ma di aver portato qui inizialmente, superando un campo di battaglia di ostacoli normativi negli anni ’90. «Adesso gli chef devono solo alzare il telefono», mi dice, indicando un bancone che ne è ricoperto. «Voglio solo dire: per me non c’è stato niente di facile».
Mentre si muove per i ristoranti, Andrés si ferma per un selfie ogni tre passi. Si mette in posa per una foto tenendo in spalla una zampa di Ibérico. In passato lo chef pesava oltre 130 chili, ne ha persi più di 30 durante la pandemia, aiutato da un digiuno di 21 giorni in una struttura in Spagna. La corporatura più snella, la barba bianca e i berretti da strillone gli hanno dato l’aspetto da vecchio mondo di Zorba o Hemingway. Sembra più vecchio dei suoi 52 anni ma in un certo senso più potente di quand’era più giovane. Ha chiacchierato con Ertharin Cousin, un tempo direttore del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, che aveva fatto pressioni per avere il sostegno di Andrés per una conferenza alla Casa Bianca sulle problematiche alimentari, la prima del genere dal 1969. Nelle sue immediate vicinanze c’è sempre il capo del personale, un trentenne ex volontario del Peace Corps di nome Satchel Kaplan-Allen che ha nel curriculum esperienze di ogni genere, dalla strategia politica alla programmazione e al fare copie. Questa sera, scherza, uno dei suoi compiti era fare in modo che nelle decine di conversazioni avute il suo capo «non promettesse niente che poi avrebbe dovuto essere fatto».
Nel prosieguo della serata, Andrés sembra trovare più spazi per trincerarsi. A un certo punto, salta dietro l’oyster bar, per il palese terrore di chi ci lavora, e inizia a preparare ostriche con ricci di mare. Alla fine, si materializza fuori, senza giacca malgrado i 17 gradi e l’aria gelida, a fumare un sigaro e a guardare attraverso la finestra gigante il party che si svolge all’interno.
La mattina dopo, io e Andrés siamo seduti al Topolobampo, l’imperdibile ristorante messicano di Rick Bayless, a bere margarita con guacamole alle 11 del mattino. Chiedo che cosa sarebbe successo se, durante quella festa, un uragano avesse preso una piega preoccupante nel Golfo o un’esplosione avesse devastato una città del Venezuela. Anche mentre lui continuava a scattarsi selfie, dice, si sarebbe messa in moto tutta una serie di eventi. I canali WhatsApp di WCK si sarebbero animati; sarebbero stati consultati esperti di meteorologia e scaricate mappe sui telefoni in caso di interruzione della connettività. Le attrezzature avrebbero iniziato a spostarsi da uno dei Relief Operations Centers di WCK situati nella periferia del Maryland; a Oxnard in California; e presto a New Orleans: veicoli anfibi, purificatori d’acqua, forni solari; la cosiddetta deployable kitchen unit, o DKU, una cucina da campo con cupola geodetica di 9 metri per 9 riposta in contenitori modulari pronti per essere impilati su un aereo o un camion.
Nel frattempo, se la situazione avesse permesso ad Andrés in persona di viaggiare nella zona colpita, sarebbero state fatte le prenotazioni, sarebbe stato recuperato uno dei vari zaini pronti e in attesa e per quando fosse uscito dalla porta del ristorante ci sarebbe stata un’auto ad aspettarlo con un piano pronto. Il giorno seguente, sarebbe stato lì, sul vostro feed di Twitter, a trasmettere dalla località in questione.
Sul suo telefono c’è un elenco di canali WhatsApp dedicato a varie attività di WCK. Tira fuori una carta di Haiti, ricoperta di puntine digitali. «Visitiamo ogni giorno ognuno di questi punti», dice. Cliccando ancora su ogni località, può vedere un rapporto dettagliato dei pasti serviti, e a chi.
Quella mattina è iniziata con una riunione con Richard Wolffe, amministratore delegato dalla nuova media company di Andrés, riguardo a una serie televisiva in Spagna. Prima della fine della giornata, Andrés avrebbe rivisto il menu inaugurale del Bar Mar; registrato un segmento per The Daily Show With Trevor Noah, parlando della mancanza di sicurezza alimentare; si sarebbe diretto in cima alla Willis Tower per parlare all’Executives’ Club of Chicago, dove tiene conferenze ai dirigenti d’azienda sull’esigenza di eliminare le strutture gestionali piramidali; e avrebbe rivisto la quantità di foie gras su uno stuzzichino di Pigtail, il nuovo cocktail bar incentrato sull’Ibérico sotto al Jaleo.
Uno dei suoi riti quando arriva a terra è suddividere una mappa della regione interessata e saltare su una jeep, spesso da solo, per andare a cercare le persone che hanno bisogno di cibo e di acqua. Di solito porta mucchi di soldi, nel caso si imbattesse, per esempio, in un pescatore con cui può contrattare di acquistare tutto il pescato di aragoste del giorno successivo, come è accaduto sull’isola colombiana di Providencia dopo l’uragano Iota, nel 2020. A casa, dice, si preoccupava spesso di stare sbagliando. Sul campo, era molto semplice: «Stiamo dando da mangiare a tutti o no? Se no, allora dobbiamo fare di meglio».
Andrés ha coltivato un personaggio che è in parte il contabile di Charles Grodin nel film del 1993 Dave – Presidente per un giorno, che risolve i problemi di bilancio del Paese usando il normale buonsenso dimenticato dai politici, e in parte un piedipiatti corrotto che non ama le norme e i regolamenti, quello che il capo licenzierebbe se non fosse così maledettamente bravo. Dice al suo personale di non passare mai più di un’ora in una riunione. Non c’è niente che gli piace di più che comandare un elicottero, o, in mancanza di quello, una elisuperficie, come dice di aver fatto alle Bahamas dopo l’uragano Dorian, dicendo al primo ministro: «Vuole dar da mangiare al suo popolo o no? Perché io ci sto provando!».
La maggior parte del mondo ha avuto un primo assaggio della spavalderia di Andrés nel giugno 2015, quando Donald Trump diede il via alla sua campagna presidenziale caratterizzando gli immigranti spagnoli come trafficanti di droga e stupratori. Andrés annullò i piani di apertura di un nuovo ristorante spagnolo nel nuovo hotel di Trump a Washington, diventando uno dei critici pubblici di maggior spicco del presidente e uno dei pochi con un senso intuitivo di come fare il troll. Su Twitter, Andrés ha sbandierato che la sua deposizione nella successiva causa era stata più lunga di quella del presidente, notoriamente ossessionato dalla dimensione.
Ma il rimprovero più secco all’amministrazione Trump sarebbe arrivato dopo l’uragano Maria, che polverizzò Portorico nel settembre 2017, lasciando 3.000 morti e un territorio americano quasi paralizzato. Andrés andò a Portorico con due chef e un portafoglio pieno di carte di credito, pianificando di fermarsi solo per qualche giorno. Ci rimase tre mesi e servì oltre 3,7 milioni di pasti, essenzialmente supplendo alle lacune di una reazione federale insufficiente. Fu, racconta Nate Mook, un ex regista di documentari che raggiunse Andrés in Portorico e che sarebbe presto diventato il primo CEO di WCK, una spettacolare prova della fattibilità di un progetto. «Stavamo rendendo professionale il lavoro che facciamo. Stavamo facendo vedere un nuovo modello, un nuovo modo di agire», racconta Mook. «Ed era qualcosa che potevamo fare in tutto il mondo, arrivando sul campo con un minimo preavviso, subito in prima linea».
Quando cammini al fianco di Andrés e lui inizia a infervorarsi per quello che sta dicendo, vira verso di te, enfatizzando ogni argomento con un breve colpetto assertivo sul tuo braccio. Il mio inizia a farmi male mentre ci facciamo strada per il Loop di Chicago, con Andrés che sfida il vento con brevi passi decisi, lo zaino ben stretto sulla schiena. Ma adesso siamo fermi immobili all’angolo di una via. Ho contrariato Andrés.
«Che cazzo stai dicendo?», mi chiede. Quello che ho detto io è che la maggior parte degli americani non si sentivano liberi di bussare alla porta dei loro rappresentanti per esprimere le loro opinioni, anche se, come Andrés ha appena detto, è una caratteristica assolutamente unica della democrazia americana.
«Puoi! È un tuo dovere di cittadino!», continua. «Cazzo. Quando la gente mi dice: “Oh, sei riuscito a far accadere tutto questo perché sei José Andrés”, mi arrabbio molto. Quando andai dal primo ministro delle Bahamas e dissi che avevo bisogno di una elisuperficie, pensi che sapesse con chi stava parlando? Se avesse saputo che ero uno chef, probabilmente mi avrebbe preso meno sul serio. Ha solo visto un tizio che era molto determinato e anche un filo alterato. Per cui tutti possiamo essere José Andrés!».
Chi parla in questo modo nel 2022? È per questo che Andrés è stato un ostacolo tanto naturale ed efficace per Trump: ritiene veramente che tutto quello che pensa Trump dell’America sia per gli imbecilli. È il fervore tipico di un immigrante.
Quando gli chiedo che cosa lo abbia fatto decidere, nel 2013, a naturalizzarsi americano, ci pensa per quasi 30 secondi.
«Perché nella vita ci stai dentro al 100 per cento o no?», dice alla fine. «Ti bagni o no. E io dovevo. Se volevo avere una voce più forte, non potevo starmene semplicemente ai margini».
Andrés è arrivato in barca a vela nel Nuovo Mondo come Colombo in persona, nel sartiame del Juan Sebastián de Elcano, una nave spagnola a quattro alberi. Se n’era andato da casa presto, prima trovando lavoro nelle cucine di Barcellona e poi al fianco di Ferran Adrià a El Bulli. Quel pedigree gli permise di ottenere un ricco incarico come chef privato di un ammiraglio quando arrivò il momento del suo servizio militare obbligatorio, ma Andrés riuscì invece a farsi imbarcare sul Juan Sebastián de Elcano come cuoco. Aveva visto la nave in porto con il padre da ragazzo, e adesso lo portava nel grande mondo: le Isole Canarie, Abidjan, Montevideo, Rio de Janeiro, e poi… Pensacola! Assaggiò il suo primo tortino di granchio e la sua prima moleca e rimase conquistato. Andrés non ha mai smesso completamente di essere un militare. Nei primi tempi del Covid, ha portato i suoi alti dirigenti a farsi tagliare i capelli a zero da un barbiere nella Chinatown di Oakland. «Gli ho detto: “Adesso siamo dei marines”», racconta. E qual è la visione di WCK se non una visione idealistica dei risultati che il buon vecchio imperialismo americano può ottenere?
A gennaio, lo Smithsonian ha annunciato che nella National Portrait Gallery sarebbe stato collocato il ritratto di Andrés; lo chef non ha dovuto immaginarsi come sarebbe stato. Per anni ha usato i due atri e il cortile interno della galleria come strada più diretta per sfrecciare dallo Zaytinya, il suo ristorante mediterraneo nella Ninth Street N.W., al Jaleo sulla Seventh. Non si può enfatizzare abbastanza l’importanza di finire a Washington per il percorso di attivismo e di lavoro di Andrés. «Non sarebbe successo niente se non fossi stato qui», racconta. A New York o San Francisco, le leve del potere e come azionarle sarebbero stati astratti; a D.C., erano letterali e a portata di mano. Al Jaleo, l’ex senatore di New York Daniel Patrick Moynihan viveva nell’isolato vicino ed era sia un cliente fisso che un amico. Andrés ha imparato a muoversi a Capitol Hill, facendo pressioni per una certa legislazione, partecipando ai consigli. L’ex senatore repubblicano Lamar Alexander venne al ristorante per esibire i pomodori della Grainger County in Tennessee, e Andrés poté dirgli: «Mi piace che le piacciano questi pomodori. Spero che voterà la legislazione per proteggerli!».
In futuro Andrés potrebbe esercitare il maggior impatto come esperto di politica competente, pratico e di alto profilo. Anche durante la sua battaglia con Trump, lui e il suo staff di WCK hanno mantenuto una comunicazione regolare con i membri dell’organizzazione, compresa Ivanka Trump. Senatori dei due partiti hanno fatto la fila per venire a visitare le attività di WCK al confine dell’Ucraina, e farsi fotografare. A marzo, quando era a Varsavia, è venuto anche il presidente Biden.
Andrés è un membro attivo della Food and Nutrition Security Task Force del Bipartisan Policy Center, che, tra le altre cose, si è battuta per la legislazione per ampliare i programmi di nutrizione per i bambini. È circospetto riguardo a chi esattamente potrebbe essere nel suo Rolodex, anche se le interviste secondarie che il suo team mi propone suggeriscono che sia un elenco fitto e influente. La vicepresidente Kamala Harris ha mandato un comunicato sottolineando il lavoro suo e di Andrés insieme per il FEED Act, la legislazione del 2020 che ha permesso al governo federale di pagare i ristoranti per offrire aiuto sotto forma di pasti. «Il suo lavoro ricorda a tutti noi che le nostre tavole sono sempre abbastanza grandi per accogliere i bisognosi e una persona – come José Andrés – può avere un impatto monumentale sulla vita della gente», ha commentato Harris.
Persino i santi vengono criticati. «Tutto il nostro modello di reazione al disastro si basa su esterni che arrivano in un posto per “salvarlo”, e non credo che sia un buon modello», osserva Devin De Wulf, fondatore di una organizzazione nonprofit creativa e agile di New Orleans che si chiama The Krewe of Red Beans. Nel 2020, mentre New Orleans viveva una prima ondata di Covid-19 particolarmente dura, la sua organizzazione ha raccolto un milione di dollari in sei settimane per pagare 45 ristoranti locali per offrire pasti ai lavoratori sanitari, solo per vedere poi WCK arrivare ed essenzialmente prendere il suo posto. «Penso che tutti i disastri debbano essere gestiti localmente, perché la gente del posto tiene alla sua comunità. La gente del posto capisce lo scenario culturale e lo scenario politico come non può fare qualcuno che viene paracadutato in città».
Andrés e Mook spiegano che tutto il modello di WCK consiste nel collegarsi con le risorse locali, con un’enfasi crescente sul lasciare infrastrutture funzionanti quando se ne va. Ma, aggiunge Andrés: «Ciò che ho imparato è che in quegli eventi le persone del posto sono letteralmente sopraffatte. È per questo che un’organizzazione come la nostra arriva con un chiaro senso della reazione migliore, e come se non bastasse collabora con la gente del posto».
Sembra indiscutibile che José Andrés attivista umanitario abbia un effetto positivo su José Andrés uomo d’affari. I feed sui social che proiettano i suoi messaggi da Lviv e altre zone di disastri portano al suo milione e passa di follower le notizie delle aperture dei suoi ristoranti e delle sue partnership commerciali, come quella con Capital One, a volte con una vicinanza stridente.
Andrés sottolinea che il suo lavoro di soccorso lo distrae anche dalla sua attività principale. «Quando sparisco nel bel mezzo di Portorico per 90 giorni, non sono solo quei 90 giorni. È il tempo che ci vuole per tornare, mentalmente», spiega. «Credetemi, se metto il 100 per cento della mia energia nella mia azienda, avrebbe di sicuro più successo. Quando la gente dice: “José, tutto questo ti avvantaggia…”. Davvero? Preferirei riavere la mia vita di prima».
Dice sul serio?
«No», risponde, scuotendo la testa. «Mi piace aiutare la gente. Ma allo stesso tempo, sai, potrei giocare al gioco delle celebrità della Ryder Cup, e sono sulle montagne di Haiti».
Siamo alla fine di una lunga giornata a Washington D.C. È una di quelle sere in cui Andrés cambia idea su cosa fare ogni cinque minuti: il critico di ristoranti per il Washington Post è al minibar, per cui facciamo una sosta lì; un gruppo di chef spagnoli in visita vengono a casa sua per guardare Rafael Nadal nella finale dell’Australian Open, per cui magari cucineranno tutti. Alla fine, decide di non fare nulla, scegliendo invece di far consegnare una barca di cibo dal suo ristorante peruviano-cinese-giapponese China Chilcano alla figlia Inés, studentessa di politica estera alla Georgetown, e uscire a mangiare granchi. C’è un tipo che si chiama Yen Lee, alla Bethesda Crab House, dice, che se ne intende di granchi più di chiunque altri in America.
Andrés ignora religiosamente i consigli di Siri mentre lasciamo in macchina la downtown di D.C., salendo per Clara Barton Parkway, e attraverso le vie sonnacchiose di Bethesda fino alla solitaria luce scintillante del ristorante. Andrés ha chiamato prima Lee, per i granchi, e sua moglie Patricia, per una borsa frigo piena di champagne e vini armeni. Tiene bicchieri al ristorante proprio per questo scopo. Ci sediamo fuori, sotto lampade riscaldanti. Patricia, che è di Cadice, lavorava all’ambasciata spagnola quando ha conosciuto Andrés. Si sono sposati 26 anni fa. Ha l’atteggiamento caloroso e tollerante di una first lady e la sicurezza di una donna che indossa un cappotto bianco in una crab house. I due sono scherzosamente affettuosi. «Ho sempre pensato che fosse un tipo divertente», racconta Patricia, quando le chiedo della sua prima impressione del marito.
«Perché non dici che ero un figo?», si lamenta Andrés.
L’infaticabile chef è stanco. «A volte, voglio solo essere come mia madre e mio padre quando davano da mangiare a me e ai miei fratelli. Quando mio padre faceva da mangiare per gli amici. Né più né meno. Niente drammi. Viene più gente? Manda più riso», dice. «Sono diventato un marito ancora prima di diventare un adulto. Diventi papà prima di diventare un buon marito. Devi essere un uomo d’affari adulto prima ancora di sapere come essere un aiuto in cucina. E non ci sono istruzioni per nessuna di queste cose».
Apre una bottiglia di vino. «Voglio mettere fine alla fame in India. Voglio mettere fine alla fame in Africa. E sono abbastanza spudorato e abbastanza pazzo da pensare di poterci riuscire», racconta. «Ma poi dici: ho ancora una figlia che ha bisogno di me accanto. E anch’io ho bisogno di lei. E mia moglie ha bisogno di me e i miei soci hanno bisogno di me. Ed è tutto qui sopra». Si dà una pacca sulle spalle. Forse è soltanto uno stato d’animo, quest’ambivalenza. Forse, mentre il Covid svanisce e WCK opera sempre di più come un ingranaggio ben oliato con o senza di lui, Andrés si sente alla deriva, non sa bene che cosa succederà dopo. In ogni caso, tra 28 giorni, Vladimir Putin fornirà una risposta, almeno temporaneamente.
Ma adesso, Andrés si illumina mentre un vassoio fumante di granchi atterra sul tavolo. «Okay, fai attenzione», abbaia. Prende un granchio e gli toglie tutte le zampe. «Boom. Adesso siamo in un buon momento. Sei con me?».
Con il pollice, fa leva nella bocca chiusa a cerniera del crostaceo, poi solleva la parte superiore del carapace. Elimina uno strato di branchie spugnose e, usando un coltello di plastica, traccia le linee del guscio più morbido sottostante. «È il granchio che mi dice dove tagliare», spiega, mentre tira fuori un pezzo perfetto di carne bianca. La porge a Patricia. «Sei con me?». Capovolge l’altra metà del corpo e delle zampe, riempiendo rapidamente il guscio superiore girato all’insù. «I granchi sono delle brave persone. Vogliono che io abbia successo. Anche quando sono morti», commenta.
Spruzza burro tirato sul mucchio di carne, aggiunge una spruzzata di aceto bianco e spezie macinate. «La vita è questione di saper mangiare» dice, seriamente. «Tutti pensano che sia questione di saper cucinare, ma è molto più importante saper mangiare».
Prende una cucchiaiata dal guscio, la allunga dall’altra parte del tavolo, a pochi centimetri dalla mia bocca. Ho le mani impegnate da taccuino e penna. Così, guardo da un lato e dall’altro, mi chino in avanti, e senza che quasi me ne sia accorto José Andrés ha dato da mangiare anche a me.
Brett Martin is a GQ correspondent.