venerdì, Novembre 8, 2024

Abbiamo davvero visto le foto di un buco nero?

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Di recente abbiamo potuto finalmente ammirare Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio situato al centro della nostra Via Lattea. Merito degli sforzi dell’Event Horizon Telescope (Eht), il consorzio di ricerca internazionale che da anni affina le possibilità dell’interferometria astronomica proprio allo scopo di fotografare questi giganti del cosmo. Come ricorderete, i primi frutti delle fatiche dell’Eht erano arrivati nel 2019, con la foto scattata a Messier 87 (M87), il buco nero al centro dell’omonima galassia nella costellazione della Vergine. Un successo rivoluzionario comunque lo si voglia guardare. Ma che forse non ha prodotto un’immagine realmente fedele del suo soggetto. A sostenerlo è un team di astronomi giapponesi, che ha appena pubblicato uno studio (disponibile per ora in preprint, ma già accettato dall’Astrophisical Journal) in cui mette in discussione la correttezza delle tecniche utilizzate per ricomporre la foto di M87. Se avessero ragione, l’anello di luce visibile nell’immagine sarebbe in realtà un artefatto, nato dai processi con cui le misurazioni raccolte dai telescopi dell’Eht sono state trasformate in un’immagine fotografica.

Un telescopio planetario

Fotografare un oggetto che dista 55 milioni di anni luce dal nostro pianeta non è certo facile. E anche con le tecnologie più avanzate, e oltre 200 ricercatori dedicati al progetto, per riuscirci l’Eht ha dovuto necessariamente utilizzare una certa dose di approssimazione. La tecnica utilizzata per le osservazioni si chiama interferometria a lunghissima base, e consiste nell’utilizzare contemporaneamente più radiotelescopi posti in punti differenti della Terra puntati sullo stesso obbiettivo, così da ottenere una risoluzione paragonabile a quella che offrirebbe un telescopio con dimensioni pari alla massima distanza tra i telescopi che compongono il sistema.

Trovandosi in posizioni diverse a distanze diverse dall’oggetto osservato, per comporre i dati raccolti è necessario sincronizzare le osservazioni per rendere conto del fatto che i radiosegnali provenienti da una singola fonte raggiungeranno i diversi radiotelescopi in momenti leggermente diversi. Per questo, ognuna delle antenne utilizzate da Eht è stata dotata di un orologio atomico realizzato su misura, con cui calcolare con precisione assoluta il momento di arrivo di ogni dato registrato. Per catturare l’immagine di M87, gli otto telescopi di Eht sono stati puntati sull’obbiettivo per sette giorni nell’aprile del 2017. E quindi la mole incredibile di dati raccolti è stata inviata a due centri di calcolo, negli Usa e in Germania, dove è stata elaborata fino ad ottenere l’immagine che ha sbalordito il mondo nel 2019. Ed è qui che nasce il possibile problema messo in luce dai ricercatori giapponesi.

Un puzzle pieno di tasselli mancanti

Con l’interferometria a lunghissima base è possibile ottenere una risoluzione equivalente a quella prodotta da un radiotelescopio di dimensioni planetarie. Ma a differenza di quanto avviene con una macchina fotografica digitale di dimensioni normali, questo non garantisce di ottenere immagini ad alta fedeltà. “La risoluzione di un telescopio determina quanto possono essere vicini due oggetti ed essere comunque riconosciuti come oggetti distinti – si legge sul sito dell’Eso, uno dei partner dell’Eht attraverso l’Atacama Large Millimeter Array – mentre la qualità dell’immagine definisce la fedeltà nel riprodurre l’immagine della struttura dell’oggetto osservato”.

Con la sua rete di telescopi, l’Eht riesce dunque ad ottenere un’elevata risoluzione, ma il campionamento della luce proveniente da M87 viene comunque effettuato solamente nei punti in cui sorgono i radiotelescopi. All’immagine totale del buco nero (o meglio dei suoi dintorni) mancano quindi molti pezzi. Spazi vuoti, che vanno riempiti cercando di immaginare cosa potrebbero contenere. Un compito che i ricercatori dell’Event Horizon Telescope paragonano a riconoscere una canzone sentendo solamente alcune note della sua melodia. Più note si hanno a disposizione, più sarà facile indovinare la risposta. E più si conosce la melodia, maggiori saranno le probabilità di azzeccare. Per questo motivo, i dati registrati dai radiotelescopi vengono processati utilizzando degli algoritmi ad hoc, che scelgono tra la moltitudine di immagini che possono essere ottenute dai dati raccolti quella che risulta più plausibile, basandosi sulle conoscenze disponibili riguardo al buco nero in questione.

Dove nasce il problema?

Appurato come è stata ottenuta l’immagine di M87, è ora di parlare delle critiche giapponesi. Come è evidente, più che una fotografia si tratta di una ricostruzione ottenuta partendo da un set di dati e stabilendo una serie di ipotesi di partenza con cui verranno elaborati. Cambiando queste ipotesi iniziali, l’immagine finale può essere molto differente. Avendo alcune perplessità circa l’immagine diffusa da Eht, i ricercatori giapponesi hanno deciso di tentare di replicare le analisi dei dati raccolti durante le osservazioni del 2017, ma utilizzando differenti set di parametri iniziali. In particolare, agendo sul campo visivo dello strumento (cioè del super telescopio ottenuto unendo le registrazioni delle otto stazioni di Eht) l’iconico anello di luce che nella foto originale circonda l’ombra del buco nero sparisce velocemente. Utilizzando un campo visivo più ampio, i ricercatori giapponesi hanno ottenuto un’immagine che mostra due macchie luminose, una direttamente attorno al buco nero, e uno più spostato, che secondo i ricercatori potrebbe rappresentare i getti di materia emessi da M87, un particolare che è stato confermato in passato da diverse osservazioni, ma che risulta invisibile nell’immagine ottenuta dall’Eht.

Chi ha ragione?

L’anello di luce è presente anche nella foto di Sagittarius A* diffusa negli scorsi giorni. E anche in questo caso – rivela Makoto Miyoshi, dell’Osservatorio astronomico del Giappone, intervistato dal New Scientist – potrebbe trattarsi di un artefatto fotografico ottenuto scegliendo un campo visivo troppo ristretto. Dal canto loro, gli autori delle analisi originali rimandano al mittente le critiche dei giapponesi, ricordando che i risultati del loro lavoro sono stati verificati, indipendentemente, da quattro diversi team, con quattro metodologie differenti. “Loro hanno utilizzato un campo visivo straordinariamente largo, e così hanno disperso l’intensità della luce che circonda l’immagine. Con quel tipo di libertà, puoi ottenere più o meno quello che desideri”, spiega al New Scientist Geoffrey Bower, project scientist della collaborazione Eht. “Le nostre sono le più verificate immagini interferometriche mai pubblicate”.

A livello scientifico, si tratta di uno standoff: sia i giapponesi che i ricercatori dell’Eht rimangono per ora sulle proprie posizioni. Vista la quantità di ricercatori coinvolti nella collaborazione dell’Eventi Horizon Telescope (quasi 200), verrebbe da dire che l’ago della bilancia pende in loro favore. Ma nella scienza il principio di autorità lascia il tempo che trova: parlano i dati, e per fortuna due nuove campagne di osservazione, portate avanti nel 2018 e nel 2022, sono in fase di analisi proprio in questo momento. E quando saranno trasformati in immagini, è probabile che sapremo con certezza chi ha ragione, e qual è il vero volto di M87 e Sagittarius A*.

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