Questo articolo è stato pubblicato da questo sito
Una qualità innegabile tua (e di conseguenza di Madman) è quella di essere stati considerati molto tecnici. Prima parlavamo dei tuoi colleghi e diciamo che di personaggi che hanno abbandonato il genere per provare una scalata ce ne sono a bizzeffe, inseguendo questa presunta melodia. Mi affascina, nella tua musica, il passaggio dalla tecnica a quello che fai adesso. Non direi che insegui la melodia, però sicuramente c’è un cambiamento. È una domanda quasi personale: sto crescendo e sto smettendo di pensare che esista solo il rap, solo le batterie che picchiano. È successo lo stesso anche a te? A un certo punto ti guardi allo specchio e capisci che non potrai rappare per sempre come in QVC?
Guarda, ti dico la verità, è una cosa che è venuta fuori molto spontaneamente. Io sento tantissima musica e l’80% di quella che ascolto è cantata. Anche se sento rap, penso a J. Cole, a Drake, alla fine rappano, sì, ma c’è una grossa parte cantata. C’è sempre una venatura melodica, negli ultimi dischi, negli ultimi anni. Trovo che sia meglio perché fare un disco rap tutto quanto rap, senza mai provare a sperimentare qualcosa per me è noioso ormai. E sono anni che è così, anche in Davide ci sono canzoni rappate, ma con un accenno di melodia. Mi risulta boring non provare. Poi ovviamente se non mi viene spontaneo non lo faccio, in pezzi tipo quello con Noyz o quello con Coez e Marra. Ma se prendi il pezzo con Madman è un brano tutto strillato, poi nelle ultime quattro barre c’è una sorta di switch. Prima, prendevo la traccia con un approccio quasi distruttivo: adesso vado e faccio tutte le rime che posso. Ora crescendo sono anche sempre più dietro all’aspetto delle produzioni, sono un incredibile cagacazzi. Quindi quando si tratta poi di mettermi al microfono, sono già in seconda o in terza, so che non voglio scrivere solo delle barre. Ovviamente voglio scrivere anche delle barre, voglio fare le doppie rime, ci sono doppie rime in tutto il disco, anche su quella con Sfera sono tutte doppie. Se la gente che ascolta il rap capisce questa cosa, secondo me è la svolta, perché tu puoi sentire anche un pezzo con la chiave reggaeton, ma con la radice di Gemitaiz.
Sicuramente l’approccio prima era più verboso. Poi ovviamente nel corso della tua carriera ci sono molti esperimenti in cui sei andato a svuotare quei testi così fitti, anche rappando (parlavamo prima di Pistorius, per esempio). Però adesso cantando, vorrei capire com’è cambiato il tuo modo di scrivere. Mi affascina perché è totalmente unexpected. Ti faccio l’esempio più stupido: un’evoluzione così da Eminem non te l’aspetti mai…
No, no, certo. Io credo che sia una cosa che è cresciuta dentro di me, fino a diventare spontanea. Quindi lì per lì non mi rendo conto, però sicuramente quello che ho imparato è far respirare un po’ più la traccia, che secondo me è importante. E questa cosa l’ho imparata ascoltando gente che fa dischi pressoché perfetti, tipo Drake. Tu quando metti un pezzo di Drake senti che suona bene, il master è perfetto, le rime sono perfette, la voce sua è perfetta. Poi può non piacerti, però gli devi riconoscere qualcosa… Pure Toosie Slide quando uscì, pensai che quel pezzo fosse noioso. Poi però quella cosa mi ha fottuto il cervello, quel giro ti entra nella testa: “It go right foot up, left foot, slide” (canta, ndr). Alla fine me lo sono squagliato, però all’inizio mi risultava un pezzo un po’ scarico. Da lì ho capito delle cose: che non è necessario che i beat partano subito, che bisogna dare respiro alle cose. Sai, le rime le ho sempre fatte, mi sono sempre trovato a mio agio nel farlo. Invece le pause, quelle ho dovuto imparare a farle e ho imparato dai dischi delle persone che lo sanno fare. Poi ora ti ho fatto un esempio con Drake, ma ce ne sono mille altri…
Secondo me questa è una cosa che ti va assolutamente riconosciuta. Anche tutta la trafila dei mixtape, hai continuato a farli anche quando la gente persino negli USA aveva smesso di usare Datpiff, in cui il concetto di scaricare la musica era un po’ passato. E giocare a “competere” con Young Thug, Travis Scott, provando a rappare sullo stesso beat, a volte anche nello stesso modo…
Sì, quelle cose lì sono tipo training, è una cosa che faccio con piacere, perché le voglio fare. Dopo tre o quattro anni che ti riscrivi i pezzi come gli americani, entri in quel mood, anche senza volerlo. Pensa al pezzo con Mace: quando lo abbiamo registrato, siamo prima andati a prenderlo in stazione. In macchina c’era l’ultimo di Young Thug, Punk, perché Flavietto se lo sentiva a stecca. La prima frase che ha detto Simone è stata: “Madonna che palle, Young Thug con ‘ste chitarre ha rotto i coglioni”. Io pure, da grande fan, mi trovavo d’accordo, pensavo che quel disco mi avesse rotto il cazzo. Poi siamo andati in session, mi ha fatto sentire un loop di chitarre e poi abbiamo fatto un pezzo di Young Thug con le chitarre alla fine (ride, nda). Sono cose di cui non ti rendi neanche conto.