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Nel mio nome è un documentario e un podcast. È il film che Elliot Page, attore e attivista, suo produttore esecutivo, vorrebbe che tutti vedessero. È la storia di quattro ragazzi trans che Nicolò Bassetti, regista e produttore (ideatore di Sacro GRA, Leone d’oro al miglior film nel 2013), ha voluto raccontare dopo aver ricevuto una lettera da suo figlio Matteo. Scriveva: sono trans e voglio intraprendere una transizione di genere. Fidati di quello che sto dicendo, anche se in questo momento non capisci tutto. E stammi vicino. «Era indirizzata soprattutto a me», dice Bassetti. Quel soprattutto non escludeva la madre, i fratelli e le sorelle, la nuova compagna del padre. Enfatizzava piuttosto le intenzioni: te lo devo dire io, perché in questo mondo, fatto così, non hai gli strumenti per capire quello che succede.
Nel mio nome, presentato all’ultimo Festival di Berlino, sarà al cinema il 13, 14 e 15 giugno, preceduto dal podcast omonimo, in cinque puntate, disponibile sulle maggiori piattaforme. Il film arriverà anche sui canali dell’inglese BBC dal 21 giugno, in occasione dei Pride internazionali. L’augurio è che si diffonda: anche attraverso la televisione italiana, che ci sta ancora pensando, e nelle scuole, dove parlerebbe a chi non ha trovato la propria voce. E a chi non immagina che esistano espressioni di genere non conformi. Non conformi nel senso che non rientrano nelle categorie note del binarismo: o sei maschio, o sei femmina, o non sei. «È un documentario sul reale: il punto di vista è il mio, ma ho discusso con i ragazzi tutte le scene, fatto assieme ogni scelta», precisa Bassetti, che si è preso il tempo necessario per arrivare alla rappresentazione che voleva. Il lavoro è durato tre anni: sei mesi di ricerca, due anni di riprese, sei mesi di post-produzione. «È il mio modo di muovermi: praticamente da solo, in lentezza. Mi serve per entrare in relazione con i personaggi: filmo solo quando sento che è necessario». Alla fine dei tre anni, aveva meno di 60 ore di girato. E un obiettivo ben chiaro: evitare gli stereotipi e il voyeurismo.
«Quella domanda lì – sei maschio o sei femmina – è proprio disumanizzante. Come se ogni altra cosa non potesse esistere»