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Abbiamo votato per i referendum sbagliati. Quest’ultimo pezzo di primavera 2022 poteva passare alla storia come un’importante stagione referendaria, la prima a 25 anni dal raggiungimento dell’ultimo quorum – quello su acqua, nucleare e legittimo impedimento – e molti di più dall’epopea radicale degli anni Settanta e Ottanta, arrivata in realtà fino al 1995. In quegli anni gli italiani, oltre al divorzio e all’aborto, fecero fare un salto all’assetto istituzionale del paese. Ma soprattutto capirono che la loro opinione contava davvero e poteva cambiare le cose. Anche se all’atto pratico le loro intenzioni furono spesso tradite. Basti pensare a quanto accade oggi, e in modo sempre più grave, proprio sull’aborto con l’obiezione di coscienza.
Il flop di domenica 12 giugno sul cinque quesiti referendari sulla giustizia, con il 20,8% degli aventi diritto alle urne, il dato più basso della storia della repubblica, era annunciato. E non perché se ne sia parlato poco ma perché sono quesiti la cui risposta dev’essere individuata dal Parlamento, all’interno della riforma della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che è già a metà del guado e che affronta tutti i punti su cui si era chiamati a votare, dall’elezione del Csm alla separazione delle carriere fino a una diversa logica delle pene e alla durata dei processi. Certo quella riforma adesso deve arrivare in fondo entro l’autunno, perché il tempo del governo Draghi è sempre più sottile. Dovesse soccombere, forse ci mangeremo le mani almeno per tre di quei quesiti.
Dunque gli italiani sono stati chiamati al voto (e ha risposto solo uno su cinque) per referendum che sì, almeno in tre casi toccano ferite aperte del nostro assetto istituzionale, pensiamo allo scempio del Csm o all’abuso delle misure cautelari, ma che hanno percepito lontani e soprattutto strumentalizzati da una parte politica. Anzi, da un (fu) leader politico, quel Matteo Salvini che continua a collezionare sconfitte e umiliazioni strategico-politiche, smottando pericolosamente verso il Cremlino. Non si capisce quando prenderà atto che la stagione del Papeete è terminata, che le ruspe sono rientrate nei depositi e che forse è il momento di rispondere alla freddezza dei suoi stessi elettori con un vistoso passo indietro.
C’erano però, come avevamo analizzato mesi fa, altri quesiti per i quali la campagna di mobilitazione era stata lunga, sentita, partecipata. Aveva innescato dibattiti importanti, sempre in un asfissiante intreccio fra l’opinione pubblica che spinge la Corte Costituzionale che spinge il Parlamento a legiferare. Due quesiti sui quali avremmo meritato di esprimere il nostro voto ma non abbiamo potuto. Nel primo caso a causa della Corte Costituzionale, nel secondo dei promotori. Senza considerare quello sulla caccia, che forse con la sensibilità di oggi avrebbe potuto avere esiti differenti rispetto ai tentativi del 1990 e del 1997.
Su cosa avremmo voluto votare
Si tratta dell’eutanasia attiva e della liberalizzazione della cannabis. Per il primo erano state raccolte 1,2 milioni di sottoscrizioni, per il secondo 630mila alla velocità della luce. La Corte costituzionale ci ha spiegato, in modo a dire il vero più animoso e ideologico del solito, che il primo quesito “non era sull’eutanasia, ma sull’omicidio del consenziente” (parole del presidente Giuliano Amato). In sostanza, aveva detto l’ex presidente del Consiglio, “l’omicidio del consenziente sarebbe stato lecito in casi ben più numerosi e diversi da quelli dell’eutanasia”.