giovedì, Dicembre 7, 2023

Come le Good Vibes hanno conquistato la moda

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Facciamo la conoscenza di Jake. Ha un fisico snello, indossa un paio di piccoli occhiali da sole, un berretto da beatnik e sul volto ha stampato un sorriso inconfondibile che niente e nessuno riuscirà mai a cancellare. Jake non ha problemi di mutuo, né di mandare i figli all’università, non si preoccupa del livello di colesterolo o di qualsiasi altra possibile alterazione biochimica nel sangue. Perché mai lo dovrebbe fare? Al posto di un lavoro opprimente, trascorre le giornate dedicandosi a una serie di attività all’aria aperta: dalla bicicletta all’escursionismo, dal kayak all’ultimate frisbee. In mancanza di queste passioni, lo si può trovare a grigliare, a strimpellare la sua chitarra o a rilassarsi su un’amaca appesa tra due meravigliose palme.

Jake lo conosco da sempre. In qualità di mascotte del marchio Life is Good, era onnipresente nella piccola città del Connecticut in cui sono cresciuta: mi guardava sorridendo dalle magliette abbinate ai pantaloncini cargo color kaki e alle Merrells, e più tardi dalle nuove confezioni che esponevo sugli scaffali del mio primo lavoro al dettaglio. Ha persino partecipato alla mia laurea, dove i fondatori dell’azienda si sono presentati per pronunciare un discorso alla cerimonia di consegna dei diplomi. Oltre allo slogan omonimo del marchio, Jake aveva altri messaggi positivi da promuovere: «Today Is a Good Day», «The Best Things in Life Are Not Things», «Zero Tasking». A dire il vero, non ne capivo il senso. Sono figlia di immigrati pragmatici che dicono le cose come stanno: acquistare queste magliette mi sembrava stucchevole e infantile, una mentalità ingenuamente americana. Quando mi sono trasferita fuori dal New England, ho visto sempre meno Jake e alla fine ho dimenticato del tutto Life is Good. Fino al giorno in cui mi sono guardata intorno e ho capito che il suo spirito era inspiegabilmente ovunque.

Partirei, ad esempio, da Jonah Hill: un punto di riferimento per gli uomini di tutto il mondo, spesso avvistato a Malibù «vestito per sentire ed esprimere felicità». Poi c’è Ezra Koenig che ha spostato la barra dello stile personale da preppy a chill con un pile a fiori su una maglietta «Advice From a Blueberry» e poi ha lanciato un merchandising dei Vampire Weekend altrettanto rilassato. Pete Davidson, e molti altri colleghi, con le magliette «Hunt Mushrooms Not Animals» e il gioco di parole «Bee My Friend» di Online Ceramics che ironizzano con affetto su Life is Good
LeBron James in drop «More Than My Feelings» di MadHappy. Justin Bieber con i pantaloni della tuta Mayfair «Just Be Kind». Il gioioso abbigliamento ecologico di OnlyNY, le misteriose faccine di Cactus Plant Flea Market, i cappelli «Earth Music» e le magliette «Frog Present moment» di ALLCAPSTUDIO, le felpe «Just Be a Good Person» di B4L.

Gorpcore a volontà, in grado di evocare un’idea di analoga felicità e libertà di movimento all’aria aperta. Anche i marchi dell’alta moda hanno preso parte al gioco, da Marni che ha messo in vendita una felpa sorridente, all’allegra collezione Eye/LOEWE/Nature di Loewe, fino alla collaborazione con North Face per gli alberelli felici in stile Bob Ross di Gucci.

Se una volta lo streetwear era il regno dell’esclusività e della serietà, ora tutte le formalità e le preoccupazioni sono state abbandonate in favore di un ottimismo sincero e gentile. Nel frattempo che fine ha fatto Life is Good? Dopo un breve periodo di paura per la bancarotta all’inizio della pandemia, ora sta andando meglio di quanto abbia mai fatto nei suoi quasi 30 anni di storia.

In sintesi: la positività delle Good Vibes ha conquistato la moda.

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LeBron James in completo Madhappy nell’ottobre 2020.

Jesse Garrabrant / Getty Images

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Jonah Hill al The Tonight Show nel dicembre 2021.

Getty Images / Courtesy of Rosalind O’Connor for NBCU


In un pomeriggio di tarda primavera presso la sede centrale di Life is Good a Boston, dove le vibrazioni positive rappresentano un business da 150 milioni di dollari l’anno, un gruppo di dipendenti si è riunito intorno a un tavolo, in stile Situation Room dell’intelligence della Casa Bianca. Su uno schermo davanti a loro scorreva una presentazione in Powerpoint di 30 nuovi modelli di magliette in attesa di approvazione.

Tra le immagini è passata quella di un falò, accompagnata dalla didascalia «Log On». Eccellente. Click. Grandi lettere che compongono la scritta «WTF». Poi, all’interno, la sagoma grafica di un pesce: «Where’s the fish?». Click. Lo slogan «Just Add Water». L’amministratore delegato Bert Jacobs che ha co-fondato l’azienda con il fratello John nel 1994, a questo punto si è soffermato a commentare. «Questa frase per noi è fondamentale», ha detto. «La usiamo con la canoa e il kayak. La utilizziamo con l’oceano. La associamo ai laghi. Funziona e basta». Click.

Creare la maglietta perfetta di Life is Good, tale da ispirare qualcuno a sorridere e a sborsare il prezzo iniziale di 28 dollari per conservare il proprio sorriso, equivale a un’impresa a metà strada tra l’arte e la scienza. I designer sono guidati da un diagramma cirocolare, «The Good Wheel», con le cinque categorie principali che racchiudono l’esperienza umana: Outdoor, Homeslice, Wellness, Beach e College.

Il loro lavoro procede spedito ed è così veloce che all’inizio della giornata sono passato accanto a un illustratore che stava disegnando un cagnolino tie-dye. Un paio d’ore dopo era sullo schermo con la didascalia «Grateful Dog».

Il processo di approvazione si è svolto senza intoppi, fino a quando uno dei disegni non ha interrotto il flusso. Metà dell’aula pensava che il messaggio non fosse abbastanza chiaro e avesse avuto bisogno di un po’ di punteggiatura in più. Forse una o due parole in più. L’altra metà voleva lasciarlo così com’era.

Quale era l’oggetto del contendere?

Il disegno di un cane sorridente, con la scritta «A Cold Beer» e, subito sotto, in caratteri leggermente più piccoli: «A High Five In The Mouth».

Life is Good può essere un involontario predecessore degli odierni marchi orientati alla positività, ma opera in un ecosistema a sé stante. Non si è mai infiltrato nel mercato dei prodotti cool, né i fondatori sono particolarmente interessati a farlo. Non pensano nemmeno a Life is Good come a un marchio di moda, quanto a un’azienda che si occupa di benessere e ottimismo e solo incidentalmente vende abbigliamento. Il 10% di ogni vendita viene devoluto a una fondazione interna che aiuta i giovani svantaggiati.

Il senso della produzione è a cavallo tra creatività e servizio di pubblica utilità. Puoi imbatterti in questi slogan nei negozi delle piccole città di mare durante le vacanze estive o sceglierne uno come regalo per la Festa del Papà, ma lo stesso uomo potrebbe tranquillamente avere un armadio pieno di queste magliette da sfoggiare ogni giorno. I clienti spesso conservano la stessa maglietta per più di 20 anni. Anche se il marchio preferisce parlare di “psicografia” anziché di demografia, il 70% degli acquirenti sono bianchi.

«A volte le persone pensano che Life is Good significhi solo gustarsi dei succosi gelati e giocare a calcio», ha precisato Bert. «Ma la realtà è che noi lavoriamo».
Quando sono arrivata, sono stata accolta nell’atrio da un cane con la bandana che mi ha accompagnato al piano superiore insieme al suo padrone. Le porte dell’ascensore si sono aperte e davanti ai miei occhi si è rivelato l’accogliente calore dell’arredamento in legno pregiato di una taverna aziendale completa di strumenti per una house band. Avevo la sensazione che nelle vicinanze ci fosse qualcuno intento a palleggiare accompagnato dalla colonna sonora di un’allegra composizione di Jack Johnson. 

Al giorno d’oggi, qualsiasi altra startup offre una tazza di kombucha alla spina, ma Life is Good è stata un pioniere degli ambienti di lavoro informali. Mentre mi accingevo a intervistare i fondatori in una sala conferenze intitolata a Malala Yousafzai, ho notato che il 99% dei dipendenti indossava magliette di Life is Good. Il pezzo forte era una maglia di Jake danzante con arcobaleno, nello stile degli orsi dei Grateful Dead, indossata da un uomo il cui titolo di lavoro è «Director of Good Vibes».

Bert indossava un semplice completo grigio-blu con la scritta «Grateful Dude». John Jacobs, il COO, sfoggiava un berretto e una maglietta con un polipo che indossa lo stesso copricapo. «Ci vestiamo ancora come se fossimo al college», ha sottolineato Bert. «Non è cambiato nulla». Ora hanno 50 anni, sono alti e ancora prestanti come dei ragazzini. Bert, che lavora anche come istruttore motivazionale, ha un accento più marcato di Boston e un’aria meno pacifica rispetto al fratello, più piccolo di due anni, dai capelli rossi e il sorriso smagliante.

Steve Gross, responsabile della loro fondazione interna, è cresciuto con i fratelli Jacobs a Needham, un sobborgo nei pressi di Boston. «Erano i due ragazzi più poveri che conoscessi», mi ha rivelato. «Non avevano mai nulla. E non erano affatto insoddisfatti della loro condizione». Bert e John sono i più giovani di sei figli e la loro infanzia è stata segnata da un traumatico incidente d’auto che ha lasciato il padre disabile e pieno di gravi disturbi nervosi. È stata la loro madre, nonostante ogni difficoltà, a cercare di non perdere il controllo della situazione. Ogni sera, a tavola, chiedeva ai membri della sua famiglia di condividere un episodio positivo accaduto a ognuno di loro, una tradizione che ancora oggi viene utilizzata per aprire le riunioni di Life is Good.

A partire dal 1989, all’età di vent’anni e senza nulla da perdere, hanno cominciato a viaggiare su un furgone vendendo magliette nei dormitori dei college. Un’impresa che è partita molto male e con scarsissimo riscontro. Scarabocchiavano sempre e un giorno, nel 1994, hanno annotato il personaggio di Jake. «Abbiamo riflettuto sullo stigma associato all’immagine dell’artista: una figura legata all’idea di isolamento, alla depressione e alla tendenza ad essere infelice», ha raccontato John. «Gli artisti possono divertirsi, essere molto socievoli, ed è proprio da lì che è nato Jake». Poco dopo, hanno organizzato una festa durante la quale un loro amico ha appeso alla parete un disegno di Jake e ha scritto: «Questo ragazzo ha capito tutto della vita». I due hanno realizzato delle magliette con il volto di Jake e hanno sintetizzato il sentimento nella frase «Life is Good». Questa volta le loro magliette sono andate a ruba.

I fratelli Jacobs sono stati spinti verso la positività anche a causa di un’istintiva reazione alle notizie e alla comunicazione negativa imperante negli anni ’90. Una realtà che può apparire sorprendente a chi di noi era all’epoca un bambino e tende a ricordare quel decennio come il periodo felice prima della guerra alla minaccia terroristica, quando non c’erano limiti espressivi e smartphone in vista. «Ciò che andava di moda era un approccio molto diretto, soprattutto nelle scritte sulle T-shirt», ha raccontato John. Era l’epoca di No Fear e Coed Naked e i due ricordano di aver fatto un viaggio a New York circa un anno prima di iniziare Life is Good dove hanno visto una maglietta «Fuck You» nella vetrina di diverse boutique. Quando hanno chiesto spiegazioni ai proprietari dei vari negozi, hanno sempre risposto che era lì perché vendeva bene.

«Noi cerchiamo sempre di evitare di prendere di mira qualcuno», dice John.
«Ma non è una regola ferrea», ha aggiunto Bert. «Abbiamo una maglietta che mostra un gatto con la scritta: ‘Pay attention to me ignoring you’. È una frase un po’ sprezzante».


Forse è passato un minuto dall’ultima volta che hai visto una maglietta di Life is Good in giro. Scommetto che non riusciresti a lanciare un sasso senza colpire un ragazzo con una maglietta tie-dye accompagnata da uno slogan ottimista e positivo. Potresti persino essere tu la persona in questione. Eppure, se Life is Good si basa su semplici luoghi comuni destinati a un pubblico di gente non esperta di moda, come vanno considerati tutti gli altri che propongono merchandising positivo?

La situazione è meno chiara. Lo scrittore Hanson O’Haver ha recentemente illustrato su Gawker il «grande collasso del senso dell’ironia» nella nostra cultura: da un semplice caffè a Bosch, ha sottolineato, sta diventando sempre più difficile capire le persone in base ai loro gusti. I padri boomer, i millennial disaffezionati e gli adolescenti della Gen Z sembrano improvvisamente allineati dal punto di vista stilistico e spirituale. Quanto era serio l’appassionato di  moda che indossava una maglietta con la scritta «Your Ego Is Not Your Amigo»? Quanto lo era il designer?

Questo messaggio è stato il primo successo di Online Ceramics, fondata dai compagni di scuola d’arte Elijah Funk e Alix Ross che vendevano magliette dalla loro auto durante gli spettacoli di Dead & Company. «Penso che sia divertente fare le cose strizzando un po’ l’occhio», mi ha detto Funk. «Si può essere sinceri anche facendo una battuta».

Grazie a un’astuta e affascinante miscela di ironia e sincerità, il marchio mi è sempre apparso come una specie di Life is Good in acido. Per esempio, una volta ha realizzato un tie-dye bootleg con Jake che cucina acidi, accompagnato dalla frase «Life Is Really, Really Good». La maglietta più popolare di Online Ceramics raffigura la terra all’interno di un cuore, con la frase «We’re All Gonna Die». «Sembra un’idea hard-core», ha detto Funk. «Ma in realtà è il modo più positivo di vedere la cosa».

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