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Ne avevamo parlato l’ultima volta a febbraio, quando ItsArt, la piattaforma digitale per promuovere la cultura italiana – la “Netflix italiana”, definizione evidentemente non nostra ma del suo principale sponsor, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini – aveva cambiato il terzo amministratore delegato in meno di un anno designando Andrea Castellari. Avevamo notato come sulla strategia industriale non vi fosse alcuna chiarezza: non si capiva, e ancora non si capisce, chi dovesse finanziarne la crescita e soprattutto quali fossero il modello e l’offerta, che a livello di prezzi – a parte una manciata di contenuti gratuiti – è decisamente fuori mercato rispetto alla concorrenza in streaming.
I numeri danno ora ragione agli scettici e a chi segue da anni le fantasiose creature del ministro Franceschini, come l’ormai epico Verybello.it. Il bilancio del 2021 di ItsArt, controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili, dice che la società ha perso quasi 7,5 milioni di euro nel corso del primo anno (scarso, a dire il vero) di attività. Di fatto ha dimezzato la sua liquidità, visto che l’impresa era decollata con circa 15 milioni di euro effettivi. A dirla tutta la dotazione, in partenza, avrebbe dovuto ammontare a 30 milioni di euro totali. In realtà ne sono arrivati di meno: circa 6,5 milioni di euro versati da Cdp, 10 dal ministero dei Beni culturali grazie al decreto Rilancio e altri 6 da Chili. Virtuali, visto che per il suo 49% la società co-fondata da Stefano Parisi, che prima del 2020 aveva registrato otto bilanci consecutivi in rosso, aveva messo sul piatto la piattaforma tecnologica.
I costi di produzione – come rivelato per primo da Andrea Giacobino su Finanzadietrolequinte – ammontano a 7,7 milioni di euro e sono stati impiegati per i servizi (5 milioni), per i beni (1 milione) e per il personale (900mila euro). Il problema sostanziale è che ItsArt non esiste: ha fatto segnare ricavi per 245mila euro in otto mesi di attività. Ricavi, come spiega Il Foglio, che sono così divisi: 140mila “diretti al consumatore (B2C) per la distribuzione dei contenuti audiovisivi in streaming” e 105 mila euro “verso controparti business in modalità di ‘barter transaction’”. I primi sono dunque i soldi effettivamente spesi dagli utenti sul “palcoscenico della cultura italiana”, i secondi operazioni di “cambio merce” con altre aziende. Se davvero gli utenti sono 200mila in Italia e in altri paesi – anche se in un altro passaggio se ne indicano 146mila – la spesa media di ogni utente è presto detta: 70 centesimi in tutto lo scorso anno. Siamo all’assurdo economico.
“Il presidente sottolinea come tale perdita appaia compatibile con la fase di start-up che ha caratterizzato il primo anno di esercizio”, spiega la società. Che vuole insistere su pubblicità e marketing perché i numeri dicono che, in sostanza, nessuno sa cosa sia ItsArt. Ma per investire in pubblicità e marketing servono risorse che non ci sono, o sono ridotte al minimo, e la propensione alla spesa degli utenti è ovviamente del tutto focalizzata sui grandi player che a cifre mensili spesso paragonabili a quelle di un paio di contenuti di ItsArt danno accesso all’intero catalogo di pluripremiate serie tv, film, cartoon e documentari. Un esempio? Il solo spettacolo Le divine donne di Dante di Neri Marcorè costa 4,99 euro, se lo si vuole noleggiare per 28 giorni, con 48 ore di tempo per terminare la visione una volta iniziata, mentre 6,99 euro servono per l’acquisto. Il piano standard di Netflix costa 7,99 euro al mese. Senza contare che molti contenuti che su ItsArt si pagano sono disponibili gratis su RaiPlay. Davvero poco da aggiungere.