venerdì, Settembre 29, 2023

Full Metal Jacket ci parla del vero volto della società da 35 anni

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Quando arrivò in sala, Full Metal Jacket lasciò il pubblico e la critica di stucco. Era un film unico, lo si capì subito, un viaggio dentro quella guerra del Vietnam su cui si pensava si fosse più o meno già detto tutto con Apocalypse Now di Coppola, su quella generazione perduta nella giungla del Sud-est asiatico. Invece no, ci pensò lui a creare un war movie atipico e sconvolgente, distante dai tanti infarciti di retorica che abbiamo conosciuto. Ma a guardarlo con maggiore attenzione, oggi ci rendiamo conto che nella realtà quel film non parlava di quella guerra, non solo almeno. Ci parlava della violenza nella società e nella Storia, dell’immutabilità del genere umano, che da sempre ama spargere il sangue del suo simile come nessun’altra cosa. 

“Crepi Ho chi Minh viva il corpo dei Marines!”

Nato per uccidere, questo il titolo del romanzo di Gustav Hasford da cui Kubrick decise di trarre ispirazione per creare un film, che seguiva l’iter di alcuni soldati arruolati nel corpo dei Marines. 
Li seguiamo da 35 anni nelle baracche di Paris Island, poi nel Vietnam in procinto di finire sconvolto dall’Offensiva del Tet, e infine sulla linea del fronte che portava alla città sacra di Huế, uno dei peggiori carnai di quel fronte bellico. 

Al contrario di quello che molti possono pensare, il film non fu girato in Asia o Sud America, ma presso gli Studios di Londra, arrivando ad importare centinaia di palme da piazzare nella periferia londinese e poi nel Sussex. Ma tanta e tale fu l’abilità della messa in scena creata da Kubrick, che nessuno o quasi si accorse della cosa. Anzi, ancora oggi è indicato come uno dei film più fedeli per ciò che riguardava il combattere su quel fronte maledetto e terrificante, dove la morte poteva arrivare nei modi più assurdi ed imprevedibili.

Online l’ottava puntata del nostro podcast dedicato alla relazione tra fantascienza e spazio. Ospite Adrian Fartade, scrittore e divulgatore scientifico.

Full Metal Jacket da sempre viene scambiato per un film di guerra puro e semplice, quando invece è soprattutto un film sulla guerra, su ciò che essa significa nella società e nelle civiltà umane, ma soprattutto sull’iter attraverso il quale da secoli, vengono creati uomini come i Marines. Protagonista era il soldato Joker,  sul quel Kubrick grazie ad una robusta interpretazione di Matthew Modine,  strutturò quello che era sostanzialmente un simbolo di ribellione pura e semplice al sistema. Quel sistema aveva molti suoni, molte voci e volti, il più iconico era quello del Sergente istruttore Hartman, ma anche gli ufficiali fanatici e i camerati crudeli e sadici contribuirono a donarci un’istantanea della mancanza di logicità della guerra.

E noi, camminando assieme a Joker tra macerie e corpi, riusciamo da 35 anni a comprendere appieno la verità ultima e suprema su un conflitto in armi, quella che poeti e registi di Hollywood a lungo ci hanno voluto nascondere: la guerra si fonda sulla totale mancanza di responsabilità. 
A dispetto dell’apparente e perfetta gerarchia, degli ordini dati e consegnati, delle divise, nessun piano sopravvive alla Guerra, se ne deduce per Kubrick che è il caos l’unica vera costante. 
Se guardando Full Metal Jacket spesso siete scoppiati a ridere, non preoccupatevi, non siete sadici né tantomeno avete dei disturbi legati all’empatia o alla moralità. Kubrick, come spesso amava fare, anche in quel film inserì un’anima di black humor semplicemente sensazionale, atta a generare un’atmosfera straniante e grottesca. In un certo senso si divertì come altre volte a giocare con la sensibilità del suo pubblico, con il suo pudore e la sua empatia. 

Il simbolo stesso del credo militare

Il tutto a maggior gloria di lui, del sergente Hartman, interpretato da Ronald Lee Ermey (e doppiato in italiano in modo magistrale da Eros Pagni), uno che le reclute del corpo dei Marines le aveva addestrate per tanto tempo, e che proprio da quel ruolo fu lanciato verso una carriera gustosa di caratterista. Si narra che Kubrick decise di dargli il ruolo di Hartman quando Ermey, spazientito dall’atteggiamento supponente del regista, cominciò ad inveirgli contro con il suo colorito linguaggio da caserma. Detto-fatto, fu scelto per essere sostanzialmente se stesso. Perché ancora oggi il Sergente Hartman racchiude tutto quello che è necessario capire di quel mondo parallelo chiamato esercito, della sua finalità ultima: “Il Corpo dei Marines non vuole dei robot, vuole dei killer”. 

Ad un certo punto, durante l’addestramento, Joker se ne rende conto: i Marines sono uomini normali, non sono mostri o simili. Sono stati totalmente distrutti per poi essere ricostruiti per dispensare morte, utilizzando ogni fibra della propria intelligenza e del proprio essere a questo scopo. Per ottenere questo, il sergente Hartman fin dall’inizio ne azzera la personalità, l’individualismo viene sostanzialmente bandito, si è tutti i vestiti uguale, pettinati uguali e ciò che si era prima viene completamente cancellato a partire dal nome. 
Un pò come capitava presso i vichinghi, alle reclute gliene viene dato uno nuovo, che bene o male li identifica ma solo relativamente a quel nuovo universo di appartenenza. Joker, Biancaneve, Puzza-di-Piedi, Cowboy…e poi lui, Palla di Lardo.

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