venerdì, Settembre 29, 2023

Brett Gelman parla di Stranger Things 4, degli anni '70 e della santissima trinità della commedia

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Brett Gelman è pronto ad affrontare il suo momento migliore in Stranger Things 4. Sia che si tratti di trasformare il personaggio di Murray Bauman in un eroe d’azione, sia di utilizzare e interiorizzare al meglio quanto imparato dall’attenta osservazione delle icone della commedia e del red-carpet degli anni ’70, Gelman si sta godendo ogni momento della luce dei riflettori dovuta all’ampio spazio conquistato nella serie tv più importante di Netflix. Il 27 maggio sono stati lanciati i primi 7 episodi su 9 di Stranger Things 4 e lui è stato promosso da ospite a membro fisso della serie. In questa stagione, il giornalista Murray si reca in Russia insieme a Joyce, interpretata da Winona Ryder, nel tentativo di liberare da una prigione russa Jim Hopper, incarnato da David Harbour. La trama ha permesso a Gelman di fondere azione e commedia come non aveva mai fatto prima. L’attore e comico ha parlato con GQ del particolare approccio dedicato al personaggio, delle icone della recitazione che lo hanno ispirato e dell’importanza della moda nella sua vita.

Le emozioni e il grado di coinvolgimento sono un po’ diversi nella giornata di lancio perché in questa stagione hai un ruolo più importante?

«Esatto. È proprio così. Mi sono sempre sentito parte della serie e dell’intera famiglia, però devo ammettere che l’emozione è più intensa. Nell’ultima stagione mi sentivo già un personaggio stabile, ma è stato anche un po’ come se mi stessi riscaldando per diventare tale. Nella mia mente e credo in quella di tutti, ero essenzialmente una presenza ormai acquisita. Ma quest’anno sono più coinvolto e ho maggiori responsabilità nella promozione. Devo contribuire alle attività dello show in modo davvero sostanziale. È una vera emozione. Mi sento incredibilmente fortunato. Sì, è fantastico».

In questa stagione hai anche avuto la possibilità di partecipare alle scene d’azione, il che è un po’ insolito per te. Come ti sei sentito?

«È stata una sensazione fantastica e ho preso la cosa molto seriamente. Il personaggio di Murray Bauman è una cintura nera. Quindi ho pensato: “Se è cintura nera, devo renderlo il più credibile possibile”. Per questo motivo mi hanno organizzato un corso con un allenatore di karate. Credo di essermi allenato più di quanto avessero inizialmente previsto e ho chiesto di continuare. Per tre mesi, due prima della sospensione e uno precedente alle riprese, sono stato affiancato da due fantastici allenatori, Simon Rhee e Phillip Rhee, maestri di Taekwondo. Entrambi hanno recitato nel film I Migliori, un classico film di arti marziali degli anni ’80 diretto da Robert Radler. Phillip era il protagonista principale accanto a Eric Roberts, mentre il maestro Simon Rhee era il combattente antagonista. La loro preparazione è pazzesca. Hanno addestrato tantissime persone in questo settore.

L’ho presa molto sul serio e per me è stata un’esperienza molto simile a una psicoterapia perché non mi ero mai considerato capace di affrontare una situazione del genere. Da bambino, praticare sport e fare qualsiasi attività atletica è stato un incubo. Davvero un brutto incubo. Non riuscivo nemmeno a correre bene! A quell’epoca sono stato costretto ad andare da un terapista perché avevo problemi di coordinazione e, quindi, trovarmi di fronte a questi maestri che apprezzavano di volta in volta i miei progressi… partecipare a questo show è stato fantastico insieme a tutti gli allenamenti fatti in Russia. Rendermi conto di avere la capacità di imparare così velocemente le cose a 45 anni mi fa sentire come se fossi nel fiore dell’età».

Quando hai firmato sapevi che ruolo importante avrebbe avuto nella storia Murray Baunam?

«Ho pensato fin dall’inizio che il personaggio sarebbe stato ulteriormente approfondito. Davvero. Matt e Ross Duffer sono persone molto oneste. Quindi, se si dimostrano disponibili nei tuoi confronti… ho pensato che Murray sarebbe cresciuto. Non c’è un carattere simile nella serie e penso sia in grado di dare al racconto qualcosa che nessun altro riesce a offrire».

In che modo il tuo background comico condiziona il tono della serie?

«Il mio background comico è stato decisamente una risorsa vitale. In gran parte si tratta di recitare il copione, ma l’improvvisazione ha dato un tocco in più. Ho una formazione classica e da giovane studiavo recitazione e commedia, guardando i miei cult preferiti. A volte li rivedevo e assaporavo tre volte nello stesso giorno».

Quali sono?

«Partirei dalla santissima trinità composta dalle tre migliori opere di Mel Brooks: The Producers, Mezzogiorno e mezzo di fuoco e Frankenstein Junior. A mio avviso sono i tre film più divertenti di tutti i tempi. Poi ci sono quelli dei Fratelli Marx, Peter Sellers, Eddie Murphy. I membri del cast originale del Saturday Night Live. Ghostbusters. Il Dottor Stranamore. Una notte all’Opera. La guerra lampo dei Fratelli Marx. La cosa fantastica di questa stagione è che ci siamo tuffati nell’estetica delle commedie d’azione degli anni ’80. Così ho preso spunto dai miei eroi di quel periodo insieme ai personaggi che erano al loro apice quando ero piccolo: Eddie, Bill Murray, Dan Aykroyd, Chevy Chase, John Candy. Tom Hanks! Quando ero bambino, Tom Hanks era un attore comico. Ho sempre avuto in mente l’immagine e lo stile di Gene Wilder, ma ho anche idea di attingere da tutti questi magnifici attori».

Murray sembra quasi uno di quei personaggi molto in voga negli anni ’70, paragonabile a Gene Wilder o Richard Dreyfuss.

«Sono stati proprio loro i due attori a cui mi sono ispirato in maniera particolare. Ogni volta che entro in un ruolo considero le interpretazioni di altri attori, non per imitarli, ma per cogliere la loro anima e il tono in cui recitano. E sono sempre stati Dreyfuss e Wilder. Però voglio precisare che in questa stagione si è insinuato anche un po’ di John Candy. Ci sono molte risate fragorose. Cercare di ingannare i cattivi con un’esplosione di ilarità è una cosa molto alla John Candy.
Il modo in cui Murray dà di matto ricorda moltissimo Gene. La maggior parte delle cose che stiamo mostrando come cruda realtà fanno il verso a Dreyfuss nel film Lo Squalo. Ho preso spunto da questo stile ma, ovviamente, l’ho riadattato alla situazione. Sia nella commedia, sia nel dramma, sono molto influenzato dall’estetica e dai valori della recitazione degli anni ‘70. Wilder era un attore che seguiva un metodo. Ha studiato con Strasburg e poi ha lavorato con Mel. Nella Santa Trinità, Gene è il Gesù di quei film e Mel è Dio! Le mie due interpretazioni comiche preferite di tutti i tempi sono quelle di Zero Mostel e Gene Wilder in The Producers. Ho sempre nel cuore e nella mente quelle interpretazioni».

Quali sono le commedie buddy degli anni ’80, dove viene esaltato il contrasto comico della coppia protagonista, che sono state specificamente citate come punti di riferimento per te e Winona in questa stagione?

«Sebbene nelle scene di questa stagione l’ispirazione sia nata da I predatori dell’arca perduta e Il ritorno dello Jedi, abbiamo anche considerato il film Spie come noi del 1985. Nonché, ovviamente, tutte le grandi commedie d’azione degli anni ’80: Beverly Hills Cop, The Blues Brothers
Spie come noi di John Landis è stata la più grande.
Inoltre, abbiamo fatto un omaggio ad Austin Powers! Quando mi levo l’accappatoio alla première e chiedo a Joyce: «Puoi toglierle i vestiti?». Mi tolgo l’accappatoio e penso che la bottiglia di Maker’s Mark stia bloccando la mia virilità. Mi sono detto: «Cavolo, stiamo facendo un’imitazione di Austin Powers!». È una delle più grandi commedie. È stato bello portare l’energia della commedia d’azione degli anni ’80 con i valori della recitazione degli anni ‘70».

Che cosa ne pensi dello stile di Murray?
«Adoro lo stile di Murray Baunam. Vive in una sorta di capsula del tempo. Dobbiamo ricordare che quando ha iniziato a fare giornalismo, erano gli anni ’60. Aveva una formazione radicale, quasi alla Hunter S. Thompson. Ama la vodka. Non quanto Thompson. E non credo che fosse così impegnato. Penso che abbia mantenuto un occhio più giornalistico, ma comunque era attento. Ha raccontato la convention democratica del ’68. Era al processo di Chicago 7. Lui è a tutti gli effetti un ebreo di Chicago. Lo si vede dai capelli, dalla barba, dagli occhiali e da molti dei suoi abiti. Conserva gli stessi vestiti da un po’ di tempo. Se ne prende cura. In questa stagione ha iniziato a sfoggiare una catena d’oro. Il gusto per la moda si è affinato un po’ in questa stagione perché si sente meglio con sé stesso e il mondo a cui sente di appartenere».

Sembra più sicuro di sé.
«Credo che sia sempre stato sicuro di sé. Si sente più fiducioso nei confronti degli altri. Ha maggiore fiducia nel prossimo e vuole sentirsi un po’ più partecipe. Non odia le persone come faceva nelle stagioni precedenti. Credo che questo sia dovuto al talento di Joyce e Hopper. Alcuni capi da lui indossati assomigliano vagamente a dei pezzi di Bode».

In che modo il tuo amore per Bode fa parte della fase che tu stesso descrivi come Jaddy?

«Bode è puro stile Jaddy. Quando parliamo di riportare in auge l’estetica degli anni ’70, Bode rappresenta in quel decennio ciò che Balenciaga significa per gli anni ’90. È una rivisitazione che si rifà all’estetica degli anni ’70 e la rende più movimentata. Si tratta di un caos molto ben curato e consapevole. Credo che per questo nelle creazioni di Emily Bode si possano utilizzare tanti stili diversi senza che il tutto risulti troppo bizzarro. Se non fosse un genio e se ci fosse uno stilista meno bravo a realizzare quello che fa la Bode, appariresti come un fottuto Muppet. Ma lei ha un gusto incredibile. È in grado di adottare soluzioni di grande impatto. Ha un occhio impeccabile per il design che le consente di prendersi dei rischi stilistici e di ottenere comunque il risultato desiderato.

Se le catene d’oro vanno bene, è Jaddy! Se puoi permetterti di aprire il vestito e mostrare un po’ di petto! Parliamo di frange, di spugna e di bellissimi modelli anni ’70. È un abbigliamento Jaddy perfetto».

Quanto ti preoccupi dello stile personale? Rappresenta un aspetto importante della tua vita?

«Enorme. Ogni anno lo diventa sempre di più. Il modo in cui ti vesti è parte della capacità di espressione. Indossare un vestito mi sembra sempre più simile alla preparazione di un ruolo o alla scrittura. Salire sul palco. Sono tutte espressioni creative. Ritengo che la tua capacità di recitazione non si esaurisca sul set. Continua anche quando fai il red carpet, i panel o gli incontri con la stampa. In quel momento stai trasmettendo l’immagine di ciò che sei. Siamo i personaggi sotto i riflettori. Perciò, bisogna concentrarsi su questo aspetto e goderselo. Dobbiamo fare in modo che sia il più espressivo possibile. Molti si rifiutano di capire questo concetto e iniziano a vederlo come un obbligo. Io lo considero un privilegio».

Quando ti vesti per un evento stampa, stai esprimendo al meglio ciò che sei veramente o stai indossando qualcosa di più simile a un costume?

«Si tratta di una vera e propria scoperta di sé stessi. Man mano che lavoro in questo settore, la mia identità diventa sempre più consapevole. Non si tratta solo del lavoro che svolgo, ma anche di come lo affronto e lo promuovo. In questo senso, mi ispiro a giganti del calibro di Jack Nicholson o Elliot Gould. Sto cercando di emulare quel tipo di celebrità cinematografica che è qualcosa di aspirazionale, uno stimolo a spingermi sempre più verso quella luce. Un’energia che mi darà sempre maggiori opportunità di lavorare con persone fantastiche in progetti meravigliosi. Inoltre, avrò l’opportunità di realizzare al meglio le mie opere. È una prospettiva accattivante!

Da giovane, quando guardavo una bella intervista in uno show alla Letterman mi dava ispirazione. Capivi la bellezza. Mi sono ispirato a vedere star come Paul Newman presentarsi a Cannes. Si tratta di un’opera d’arte. Star di quel genere si adattano al soggetto. In un certo senso, parte del mio lavoro consiste nell’essere sempre pronto ad affrontare questo tipo di situazione. Desidero promuovere me stesso come un uomo sexy. Non voglio più essere visto come un clown autoironico. Voglio mostrarmi nei panni di protagonista, indipendentemente dal fatto che il ruolo sia quello o meno. Naturalmente non voglio rinunciare a interpretare degli orrendi troll! Sono uno spasso ed è fondamentale interpretare ruoli diversi. Ma in termini di immagine, voglio assolutamente apparire sexy».

Sei disposto a continuare ad interpretare Murray? Vorresti che venisse realizzato un eventuale spin-off?

«Lo farei, senza alcun’ombra dubbio, perché potrebbe essere una sfida del tutto nuova per il personaggio e il suo mondo. Penso che sia un ruolo davvero divertente da interpretare. Non per sempre, ma sicuramente un altro po’ ci starebbe bene. Pensare di poterlo riproporre in tante situazioni difficili, intense e ad alta posta in gioco, di fare più azione, parlare altre lingue e di trovarmi davvero a disagio a contatto con persone sempre più folli o stupide, è una sensazione unica! Proprio come ci si sente con James Bond o l’ispettore Clouseau. Penso che Murray abbia la stoffa per essere questo genere di personaggio».

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