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Sostenibilità ed eco-compatibilità sono le due nuove parole d’ordine dell’industria dell’ospitalità a livello mondiale. Tutti ne parlano, quasi tutti assicurano sforzi ingenti per rendere le proprie strutture sempre più green, molti ricorrono a certificazioni importanti, spesso di portata internazionale. D’altronde gli hotel, si sa, sono strutture particolarmente energivore, responsabili, secondo alcune stime, dell’1% delle emissioni di carbonio a livello mondiale. Ma non è tutto verde quello che è marchiato eco.
Tutti si dimenticano del carbonio incorporato
A raccontare cosa stia dietro a molte dichiarazioni roboanti in materia di sostenibilità è un recente articolo di Bloomberg, che ha provato a sondare cosa si nasconda dietro alle apparenze. A cominciare dal cosiddetto carbonio incorporato (embodied carbon in inglese), ossia a quella quota di emissioni strutturalmente connessa ai processi di costruzione degli edifici. La stragrande maggioranza delle attenzioni degli albergatori è riservata infatti alla sostenibilità degli aspetti operazionali della propria attività: dall’utilizzo di energia proveniente da fonti rinnovabili al ricorso a sistemi avanzati di gestione della acque reflue, fino all’eliminazione della plastica e persino al ricorso a materiali e materie prime green di origine locale. Ma quasi nessuno si sforza di misurare la quantità di carbonio prodotto in fase di costruzione-ristrutturazione.
Eppure. stando alla società di consulenza Usa, Brightworks Sustainability, i lavori edili sono responsabili di almeno il 21% delle emissioni globali. Una percentuale elevatissima, considerando anche la frequenza con cui gli hotel solitamente ricorrono a operazioni di restyling, soprattutto se confrontati con le altre tipologie di edifici. Ciononostante, chi legge le 72 pagine dell’ultimo report esg (environmental, social e governance) del gruppo Hilton non troverà alcun accenno al cosiddetto carbonio incorporato. E un discorso simile si può fare per altri colossi del settore come Four Seasons, Marriott e Hyatt, che negli ultimi decenni hanno sottolineato i propri ingenti progressi in materia di sostenibilità, senza tuttavia quasi mai accennare alla questione embodied carbon.
Le procedure di compensazione delle emissioni sono spesso opache
“Utilizzare espressioni iperboliche per autoproclamarsi l’hotel più lussuoso al mondo, per quanto il concetto sia largamente soggettivo, è assolutamente ragionevole – ha spiegato a Bloomberg, l’architetto John Locke di Autodesk, specializzato nei processi di costruzione a emissione zero -. Ma quando si tratta di emissioni di carbonio, parliamo di qualcosa che può essere perfettamente misurato. Affermazioni roboanti che hanno un impatto reale sul mondo non dovrebbero essere prese così tanto alla leggera“.
Ma non finisce qui. Anche le procedure di compensazione delle emissioni di carbonio presentano infatti alcune opacità. Sebbene non manchino esempi virtuosi in tal senso, spesso si tratta di escamotage per rendere “pulite” le peggiori pratiche costruttive: “Il carbonio emesso da un edificio è ancora una volta reale – ha aggiunto Locke -. Mentre queste fantomatiche compensazioni spesso non lo sono affatto”.
Il caso certificazioni: persino i giudizi Leed risultano a volte opinabili
Infine c’è la questione certificazioni: l’autore del testo di Bloomberg ne ha contate ben 29 tipologie differenti sulle pagine di ricerca di Google, tutte ufficialmente tese a permettere ai consumatori di fare scelte consapevoli in materia di viaggi. Ma alcune di queste sono per lo meno fuorvianti. L’articolo cita per esempio una nuova piattaforma di prenotazioni, Alight, che assegna un rating di sostenibilità agli hotel inclusi nel proprio catalogo online. Il sito però richiede semplicemente alle strutture di pubblicare autonomamente i dati che li riguardano. Risultato? un resort da 540 camere con sei ristoranti alle Hawaii ha ottenuto un punteggio green più altro di una hacienda messicana appena rinnovata dotata di impianti a energia solare.
Persino la certificazione Leed, quasi universalmente considerata una vera autorità in materia, non è esente da qualche valutazione opinabile. L’anno scorso, per esempio, ha concesso una certificazione gold, il secondo livello più alto, a una struttura da 4,3 miliardi di dollari come il Resorts World Las Vegas del gruppo Genting (quello che fino a poco tempo fa era anche a capo di Crystal Cruises). Il tutto, anche se appare difficile immaginare qualcosa di meno sostenibile di un colosso da 3.500 camere climatizzate, provvisto di un complesso piscine da oltre 2 ettari e di migliaia di pannelli Led che proiettano immagini più grandi della realtà, situato nel bel mezzo del deserto Mojave. E infatti, un’analisi più attenta della tabella di valutazione Leed del resort mostra una serie di punteggi zero in parecchie categorie chiave, quali l’energia pulita, i materiali rinnovabili, i contenuti riciclabili e il riuso dei materiali.
Ogni sforzo per rendere il mondo dell’ospitalità più sostenibile è encomiabile, conclude quindi sostanzialmente il pezzo, ma come spesso accade in molti contesti il diavolo è quasi sempre nascosto nei dettagli…