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Prey funziona anche e soprattutto grazie alla performance di Amber Midhunter nella parte della protagonista. Qualcuno la ricorderà nella psichedelica serie Legion, nella quale interpretava la mutante Kerry, manesca “gemella” del mite scienziato Cary. Secondo Trachtenberg, trovare l’attrice giusta era fondamentale per rendere plausibile la resilienza di Naru: “In Prey si parla poco, pochissimo” ci ha spiegato il regista. “è un film raccontato principalmente attraverso le reazioni, quindi era molto importante trovare un’attrice che potesse essere espressiva e comunicare solo con la gestualità e i movimenti del suo corpo. Anche quando striscia, corre e salta, sta comunque raccontando la storia e trasmettendo delle emozioni. Amber ci riesce in modo esemplare. Ha realizzato qualcosa che nessun altro, probabilmente, sarebbe riuscito a fare, quindi sarebbe stato impossibile fare il film senza di lei”. I personaggi che orbitano intorno a Naru e all’alieno sono una manciata di risoluti ma ancora inesperti guerrieri, uomini competitivi e incapaci di accettare una ragazza nel proprio circolo di candidati alla leadership della tribù.
Quella di Naru non è solo la strenua e disperata lotta per la sopravvivenza della preda dell’implacabile extraterrestre che aveva caratterizzato gli altri capitoli, è una battaglia per il riconoscimento della propria identità e del proprio ruolo nella società. Non solo il rispetto del Predator, che all’inizio non la riconosce come un degno avversario, ma anche di tutti gli altri – dalla sua famiglia agli invasori europei. In questo senso Prey è più interessante e coinvolgente rispetto al resto della saga. Trachtenberg manca dalla regia cinematografica dal 2016, ma è tornato dall’esperienza della regia di 10 Cloverfield Lane (e di un trittico di episodi televisivi) con rinnovata ispirazione: l’azione è ben dosata, l’equilibrio tra generi ha i tempi e le modalità appropriate, la sua abilità nel creare l’atmosfera di tensione e anticipazione di gran lunga migliore rispetto al passato. Le scene d’azione sono mirabili: gli effetti della potenza e scaltrezza di Predator e della velocità e precisione di Naru rendono i duelli via via più avvincenti, complessi e minuziosamente coreografati. Funzionano tanto da rendere credibile che l’invincibile ed equipaggiatissimo alieno possa ricevere del filo da torcere dall’inesperta e selvatica ragazzina.
Prey è ambientato nel 1719, in un periodo che include ancora la fase più onorevole della specie aliena. Spieghiamo: nella mitologia sviluppata attorno alle creatura inventate da Shane Black si distinguono alcuni fasi. I cacciatori extraterrestri del sequel del 2010 di Nimród Antal, Predators, sono resti a rispettare le regole d’onore della loro casta, devota alla caccia, che impedisce di attaccare prede disarmate o innocue. In Prey, l’alieno di turno appare impossibile da sconfiggere – come i suoi predecessori – in virtù della sua natura e della sua tecnologia, ma segue un codice che tende a “livellare” gli scontri. Lo dimostra anche il suo look, più primitivo e le sue attrezzature, più “analogiche”. È una premessa fondamentale per rendere plausibile – ma anche coinvolgente ed entusiasmante – la cronaca di una sfida all’ultimo sangue tra quest’ultimo e avversari relativamente svantaggiati.
“Quando ho visto il film originale di Predator” ci ha rivelato infatti Dan Trachtenberg, “ricordo quanto l’alieno fosse spaventoso e pericoloso e ricordo di aver provato una sensazione di impossibilità: come diavolo fanno le sue vittime ad affrontare una creatura così forte e avanzata? Per questo abbiamo incluso nella narrativa il codice del Predator, che impone di sfidare l’avversario alle sue condizioni. Senza questo, il film non sarebbe stato possibile, non avrebbe avuto senso”. E invece ce l’ha, tanto da sembrarci il capitolo meglio riuscito della saga dopo il capostipite del 1987.