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«Da venticinque anni, ogni mattina mi sveglio e ringrazio Marta Russo. Ogni tanto la sogno, è in una stanza diversa dalla mia, è felice, ma non vuole che io la raggiunga». Domenica Virzì è la donna nel cui petto batte il cuore della studentessa ferita da un colpo di pistola all’università “La Sapienza” di Roma il 9 maggio del 1997, e morta cinque giorni dopo. Un delitto che ha commosso e ha fatto discutere per anni l’Italia, ricostruito nel documentario in due puntate Marta – Il delitto della Sapienza, in questi giorni in onda su Netflix.
Uno sparo all’università
Ventidue anni, un passato da campionessa di scherma e il sogno di diventare avvocato. Alle 11.43 di quel giorno maledetto, Marta Russo cammina nel cortile della facoltà di Giurisprudenza insieme a una amica, quando qualcuno esplode un colpo di pistola. La sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. Marta che si accascia a terra, l’amica che d’impulso si mette a correre, i tentativi di soccorrere la ragazza ferita, le telefonate alla polizia, il trasporto d’urgenza al Policlinico Umberto I di Roma.
La scelta di donare gli organi
«Stavo uscendo», racconta la mamma di Marta, Aureliana Iacoboni Russo, «dovevo fare delle compere. Squillò il telefono, mi dissero che chiamavano dall’università e che mia figlia era stata male. Corremmo in ospedale. I medici ci dissero che non ci sarebbe stato nulla da fare. Decisi di donare gli organi, perché Marta avrebbe voluto così. Lei voleva sempre fare del bene agli altri. Morendo, ha salvato tante vite».
«Nel mio petto, il cuore di Marta»
«Ero a casa», conferma Domenica Virzì, «la mia malattia era a uno stadio finale. I medici mi avevano detto che non c’era più nulla da fare. Stavo dormendo quando arrivò una telefonata dall’ospedale di Catania: “C’è un cuore per lei, venga subito”. Ma avevo i miei tabù, mi sembrava di fare qualcosa di contrario alla fede se avessi accettato il cuore di un’altra persona. Risposi che non mi interessava. I medici insistettero: “È il cuore della ragazza uccisa alla Sapienza”. Chiamai il mio prete, venne da me. Aprimmo la Bibbia e apparve una frase che dice che le cose della Terra appartengono alla Terra e le cose di Dio a Dio, e che Dio farà nuove tutte le cose. Mi sembrò un invito ad accettare quel cuore. Poche ore dopo ero sotto i ferri».
Un’inchiesta difficile
Intanto, a Roma iniziano le indagini. Nella vita di Marta Russo non c’è nulla che faccia pensare che qualcuno volesse ucciderla. Si pensa a un atto terroristico, poiché il 9 maggio ricorre l’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro e, proprio in quei giorni, all’università le destre hanno vinto le elezioni studentesche. Pare, inoltre, che un personaggio importante dovesse passare in quel cortile. Ma questa pista viene presto abbandonata perché, mentre si indaga anche su due dipendenti di una ditta di pulizie trovati in possesso di armi proprio all’interno dell’università, sul davanzale dell’aula assistenti dell’istituto di Filosofia del diritto spunta una particella di “ferro-bario-antimonio”. Per la polizia è una traccia di polvere da sparo.
Il colpo partito dall’istituto di Filosofia del diritto?
Ora la polizia è convinta che il colpo di pistola sia partito dall’aula 6 del dipartimento di Filosofia del diritto. Si scopre che negli istanti in cui Marta moriva, qualcuno ha usato il telefono. È stata una donna, Maria Chiara Lipari, figlia di un docente della facoltà. Interrogata, all’inizio nega di essere stata presente nell’aula, poi dà versioni discordanti su chi c’era, infine passa la palla alla segretaria Gabriella Alletto. La quale viene interrogata per ore, con modalità e minacce che porteranno i giudici a “censurare” l’operato della polizia, e alla fine accusa del delitto due giovani assistenti universitari, Salvatore Ferraro, 30 anni, e Giovanni Scattone, 29, i quali si professano innocenti.
Il processo più controverso d’Italia
Inizia il processo più seguito e controverso d’Italia. Giovanni Scattone è accusato del delitto, Salvatore Ferraro di favoreggiamento personale. Ma le prove della loro colpevolezza appaiono contraddittorie. In aula viene dimostrato che quella che per la polizia era polvere da sparo, in realtà potrebbe essere un residuo dei freni di una macchina o di una stampante. L’opinione pubblica si divide tra colpevolisti e innocentisti. «Sono stato accusato di avere provocato la morte di una ragazza da me mai conosciuta, secondo modalità inverosimili: sparando senza alcun motivo un colpo, con un’arma magicamente sorta dal nulla e poi scomparsa, attraverso una finestra coperta in parte da un condizionatore e molto distante dal punto in cui è stata colpita la vittima», dice Giovanni Scattone, «inoltre, avrei sparato davanti a varie persone che mi conoscevano e che, non si capisce per quale motivo, non avrebbero reagito in alcun modo, tacendo sia nell’immediatezza e sia nelle settimane successive».
La condanna, ma il caso non è chiuso
La decisione dei giudici non lascia scampo: dopo varie peripezie processuali, con tanto di sentenze annullate dalla Cassazione perché le prove contro gli imputati sono «illogiche e contraddittorie», alla fine Giovanni Scattone viene condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione e Salvatore Ferraro a 4 anni e due mesi. Negli anni successivi, però, più volte Scattone ribadirà di essere vittima di un errore giudiziario. Spunteranno piste alternative, un testimone confesserà di aver mentito al processo e il caso entrerà nella lista dei misteri italiani irrisolti. «Ma una parte di me è morta con Marta», dice mamma Aureliana Iacoboni Russo, che da quel giorno si è impegnata a diffondere in Italia la cultura della donazione degli organi. «Senza il cuore di Marta non avrei mai conosciuto i miei otto nipotini», aggiunge Domenica Virzì, «la sua morte non è stata vana, perché ha salvato la mia e tante altre vite».