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Che meraviglia sarebbe se anche le candidature di tutti gli altri partiti e delle altre liste – e per tutti intendiamo tutti – fossero analizzate al microscopio come quelle del Partito Democratico. Capiamoci, non c’è troppo da rallegrarsi per un potenziale simpatizzante dem: ci sono nomi che dovrebbero finalmente farsi da parte (vedi Piero Fassino catapultato in Veneto o la teo-con Beatrice Lorenzin sempre da quelle parti, capolista al Senato a Padova), e altri che meriterebbero posizioni più sicure. Ci sono territori mortificati – pensiamo all’assessore alla Casa Pierfrancesco Maran a Milano – e forzature indigeste soprattutto nei collegi considerati blindati, dal solito Pier Ferdinando Casini all’uninominale a Bologna fino ad alcune caselle toscane. Ci sono i soliti familismi all’italiana, che d’altronde riguardano trasversalmente tutti gli schieramenti, dal figlio di Vincenzo De Luca ricandidato in Campania all’operazione Emiliano in Puglia: fuori tutte le donne dalle posizioni di capilista e dentro il proprio capo di gabinetto. Anche i quattro “under 35” imposti da Enrico Letta sono di fatto nomi organici al partito. E si potrebbe continuare.
Detto questo, c’è tuttavia qualcosa di singolare nel piazzare puntualmente il Pd sull’altare sacrificale delle candidature, spendendo buona parte dell’attenzione e delle energie (anche giornalistiche) sui dem e sorvolando sulle oscenità delle altre liste, sui nomi improponibili, su chi ha trascorsi di ogni tipo, moralmente o penalmente imbarazzanti. Certamente questo riflesso condizionato si deve a una promessa ciclicamente e parzialmente tradita dai dem: trasformarsi in un partito davvero progressista, riformista, coraggioso a partire dai nomi messi in lista – nelle posizioni eleggibili, sondaggi alla mano – nonostante una legge elettorale terrificante. E invece il Pd dà a molti l’idea, come ha spiegato in una serie di interessanti thread il digital strategist e blogger Enrico Sola, di essere “un gruppo di potere di signori maschi e avanti con gli anni, che usa la forma partito come paravento e intende solo auto-alimentarsi. Gli interessa la politica come luogo di permanenza, non come ambito di lotta”.
Al di là dell’equilibrismo lettiano, è senz’altro vero per esempio che nessun capocorrente è stato fatto fuori (dai ministri Lorenzo Guerini a Andrea Orlando, da Dario Franceschini a Nicola Zingaretti, da Matteo Orfini al circolo del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca) e che il gruppo più penalizzato è stato quello degli ex renziani rimasti nella ditta, cioè Base riformista. In più, c’è la necessità di caricarsi qualche candidatura all’uninominale degli alleati “lillipuziani”, da Articolo 1 a Sinistra e Verdi, ma in quel caso il problema è, di nuovo, legato fondamentalmente alla legge elettorale. Chissà, vista dalle polemiche di oggi, quali indigestioni sarebbero esplose con le truppe calendiane ancora nella coalizione e assegnatarie del 30% delle candidature uninominali.
Tuttavia c’è qualche elemento generale da tenere presente e quale altro elemento contingente, legato a questa specifica tornata. Fra i primi, è per esempio vero che il Pd è forse l’unico partito dove le candidature sono messe al voto della direzione nazionale, eletta per metà dall’Assemblea nazionale. Hanno cioè, nonostante il peso delle correnti, un qualche radicamento democratico. Nulla di tutto questo avviene altrove, neanche nei voti online degli iscritti del Movimento 5 Stelle (nello specifico surclassati dal listino blindato di Giuseppe Conte). Men che meno negli altri partiti personali, da quello di proprietà di Berlusconi a Fratelli d’Italia fino alla Lega salviniana e senza eredi. Il Terzo polo non fa eccezione. Pochi leader piazzano i nomi nelle caselle giuste, nel caso delle destre giocandosela fondamentalmente in tre, e non rendono conto a nessuno. D’altronde neanche il loro elettorato sembra badarci troppo, votano di tutto. A Largo del Nazareno c’è “guerra dei seggi” proprio perché c’è un tratto democratico che altrove non può semplicemente esistere. Forse è poco, forse è blando, ma non è insignificante.