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Non avevo mai sentito parlare di Andrew Tate prima del diluvio di articoli pieni di preoccupazione, denunce di ONG e campagne per la sua immediata e finalmente raggiunta rimozione dai social media. Quando mi capitava di accorgermi di sfuggita online della sua esistenza, non si distingueva da tanti inutili fanfaroni senza cervello che popolano quotidianamente le nostre navigazioni sul web. D’altra parte, appena il branco dei media si muove, lo fa con un impeto inarrestabile. Ora tutti, da Marie Claire al Daily Mirror, si sono affrettati a stampare rapidi profili che documentano l’ascesa al successo del concorrente fallito del Grande Fratello su TikTok in qualità di fondatore della Hustler’s University, un marchio online che non è affatto una vera università e promette di aiutare gli uomini ad arricchirsi velocemente.
Per chi non lo conoscesse, ecco il suo profilo in sintesi. Nato a Chicago, Illinois, ma cresciuto a Luton, Bedfordshire, Andrew Tate è un kickboxer di 35 anni che inspiegabilmente si esprime e veste come un uomo originario della Florida. Nel 2017 Tate si è distinto nel sostenere Donald Trump, ha deriso le accusatrici del movimento #MeToo e ha iniziato a fare capolino nei circoli mediatici di estrema destra. Ha ripetutamente elogiato il neofascista e nazionalista bianco Tommy Robinson e nel 2019 la polizia ha dovuto intervenire dopo che Tate si è presentato a casa di un giornalista che aveva osato criticare il suo idolo online. In seguito, Tate si è trasferito in Romania e ha avviato un’attività webcam con suo fratello Tristan, in cui alcune modelle raccontavano «storie strappalacrime» per indurre gli uomini a sborsare denaro. Nonostante abbiano ammesso che l’attività era una «truffa totale», i due fratelli vantano di avere guadagnato milioni di dollari grazie a questa attività.
Soprannominato «re della mascolinità tossica», nel 2016 il periodo di permanenza di Tate al Grande Fratello è stato interrotto in seguito alla diffusione di un video che lo mostra in azione mentre colpisce ripetutamente una donna con una cintura. «Prova a mandare ancora un messaggio a un altro uomo, cazzo», si sente dall’audio, «anche se non stiamo insieme, sei morta, cazzo!». Sia Tate, sia la donna nel video affermano che il rapporto in questione era «consensuale», ma dopo essere stato cacciato dallo show l’uomo ha iniziato a innescare polemiche sui social media attraverso post selvaggiamente misogini. In un altro video, Tate racconta come si comporterebbe nei confronti di una donna che lo accusasse di tradimento: «Tiro fuori il machete, glielo sbatto in faccia e la prendo per il collo costringendola a chiudere il becco». Ha sostenuto che le donne sono proprietà dell’uomo, non dovrebbero guidare e uscire di casa quando sono impegnate in una relazione. Sostiene di frequentare esclusivamente ragazze tra i 18 e i 19 anni perché è più facile avere un «imprinting» su di loro e, in un video su YouTube ora cancellato, ha affermato che «circa il 40%» del motivo per cui si è trasferito in Romania è dovuto al comportamento della polizia dell’Europa orientale, a suo avviso meno propensa a perseguire le accuse di stupro.
Temo che l’unica persona più fiera di me nell’avere accettato l’incarico di scrivere sulla misoginia dell’ex kickboxer, sui rischi legati alla presenza di individui simili su online e sul relativo impatto esercitato sulla mente di giovani uomini suggestionabili, sia lo stesso Tate. La sua sete di notorietà non è un segreto, così come il piacere che sembra avere sempre provato nell’essere causa di angoscia per gli altri. Nell’economia dell’attenzione mediatica, non esiste una grande differenza tra una critica sfegatata e la professione di fedeltà di un fan. Avere un seguito è una questione di quantità e un follower è un follower, sia quando esprime la propria adorazione, sia disgusto o curiosità morbosa. Le parole di una femminista che scrive per una pubblicazione mainstream come GQ sull’influenza velenosa di Andrew Tate non rappresentano certo una minaccia al suo modello di business. Anzi, sono un segnale a riprova della popolarità, finora, raggiunta.
Sebbene scrivere di Andrew Tate contribuisca quasi certamente a una fama oggi scalfita dalla reazione dei social che ne hanno appena bandita la presenza sui social, ignorarlo non è nemmeno un comportamento responsabile. Andrew Tate e la Hustler’s University, dopo aver sfruttato l’algoritmo con un esercito di account falsi, hanno avuto una portata enorme su TikTok: secondo il The Guardian, i video dell’influencer sono stati visualizzati oltre 11 miliardi di volte. All’inizio di quest’anno, la casa di Tate in Romania è stata perquisita dalla polizia in seguito a segnalazioni di donne trattenute contro la propria volontà e anche se le indagini sono ancora in corso nessuno è stato accusato o arrestato. Fingere che Tate non esista significherebbe sottrargli l’attenzione che evidentemente desidera, ma non gli impedirebbe di guadagnare sulla pelle di altre persone, né di sfruttarne l’ingenuità e forse abusare di loro
Andrew Tate non ha nulla di speciale. Al pari di Hunter Moore che prima di lui ha pubblicato su IsAnyoneUp.com foto intime di donne con i loro dati su Facebook, acquisite in parte tramite hacking o inviate in modo non consensuale, ha semplicemente capito un meccanismo premiante di base nella comunicazione su Internet: l’importanza sopra ogni cosa della visibilità e della notorietà. «Posso influenzare emotivamente i miei critici», si è vantato Tate in un video. «Tutto ciò che devo fare è andare su Internet e sostenere qualcosa di ovvio come le donne non possono guidare […] Loro avranno subito un breakdown mentale e posteranno una serie di video in dodici parti cercando di smentirmi, senza che io nemmeno debba prendermi il disturbo di guardarmeli!». A ogni modo, se è vero che il profilo di Tate sia stato rafforzato dai detrattori, questo non significa doverci coprire gli occhi di fronte alla ricerca dei motivi dell’esistenza di un nucleo di fan devoti.
Non si tratta per forza di un fenomeno negativo: se fai parte di un gruppo che è stato trascurato o trattato male dai media convenzionali, il sentimento di affinità e di rappresentanza può essere rassicurante o addirittura uno stimolo a raccogliere nuove idee. Il problema è che la cosiddetta manosphere, costituita da un ecosistema mediatico online di blog, siti web e creatori di contenuti dedicati a nutrire il rancore maschile, la misoginia e l’opposizione violenta al femminismo, è stata pioniera di una forma particolarmente nociva di quella che definirei parasocialità tossica. Personaggi del livello di Andrew Tate che occupano uno strano spazio tra l’artista del rimorchio, il truffatore e il chiacchierone di estrema destra, sono in grado di guadagnarsi l’attenzione di un pubblico di persone solitarie e risentite indirizzando la loro insoddisfazione contro le donne.
Di certo il privilegio maschile non è più quello di una volta. Nonostante la persistenza del divario salariale tra maschi e femmine e la natura endemica della violenza sessuale, l’autonomia delle donne nelle relazioni e nel sesso si è indubbiamente trasformata nel corso dell’ultimo secolo. Grazie alla maggiore partecipazione alla forza lavoro, abbiamo meno probabilità di dipendere finanziariamente dagli uomini; lo stupro coniugale è fuori legge; le relazioni omosessuali sono legali e fortemente destigmatizzate, il divorzio, la contraccezione e l’aborto sono tutti ampiamente liberi nella maggior parte del Regno Unito, almeno per ora. Le donne non devono più aspettare di essere scelte e nella manosphere questa parziale uguaglianza è stata interpretata come un’inversione di status tra i sessi. Persino «la donna più umile e di minore valore», secondo la loro terminologia, ha accesso a una sessualità che un uomo con caratteristiche simili potrebbe solo sognare. Secondo quanto osserva Amia Srinivasan in The Right To Sex, la trasformazione degli equilibri nella galassia sessuale ha fatto sì che per alcuni uomini la solitudine si sia trasformata in risentimento, misoginia e, in alcuni casi, in violenza. «Riconosciamo che nessuno è obbligato a desiderare qualcun altro», scrive l’autrice, «ma anche che chi è oggetto di desiderio e chi invece no, è una questione politica e sociale che spesso trova risposta in modelli più generali di controllo ed esclusione».
Invece di pensare al modo in cui uomini e donne formano relazioni sulla base dei principi di libertà e uguaglianza, la manosphere si ispira a frammenti di psicologia evoluzionistica rubati da Wikipedia e sostiene che il desiderio profondo delle donne è quello di essere dominate in ogni aspetto della loro vita. Si tratta di una visione della mascolinità basata su un’idea consumistica, in cui sia le donne sia le automobili sono merci valorizzate solo dalla quantità di persone che le desiderano. Anche nelle fantasie più nobili della manosphere, la relazione migliore che puoi sperare di vivere è commerciale, basata sul consumo e sulla freddezza di uno scambio economico. Perché cambiare il sistema per cercare di costruire un mondo gentile o più umano, quando ci si può imporre con la forza per arrivare in cima?
Si può capire quanto il caso di Andrew Tate possa sembrare un’aspirazione per un certo tipo di uomini. Se non sei particolarmente intelligente, divertente, informato o attraente e se, ad esempio, il meglio che si possa dire su di te è la capacità di arrivare terzo in una gara di sosia di pitbull, allora resta aperta la possibilità di sfruttare il lato tossico della personalità maschile. Anche se molti utenti di TikTok sono creativi e talentuosi, questo non costituisce un prerequisito necessario ad avere successo sulla piattaforma. Comportarsi in maniera spudorata per soldi non sarà dignitoso, né umanamente accettabile ma è pur sempre un modo per vivere, finché l’equità di un provvedimento non riesce a fermarti.