venerdì, Marzo 29, 2024

Venezia 79, giorno 6: cronache di cinema e non solo

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Per una scelta editoriale ben precisa non vi relazioneremo né della conferenza stampa, né del film, né del red carpet del film Don’t Worry Darling diretto da Olivia Wilde e interpretato da Harry Styles Florence Pugh. Non perché non riteniamo il film meritevole di qualche commento, non lo abbiamo visto, quindi a maggior ragione non possiamo esprimere nessun giudizio; né perché non consideriamo le dichiarazioni di regista e attori poco considerevoli o non gustoso parlarvi del loro delirante e urlante red carpet (Harry batte Timothée 2-0  in merito alla follia dei fan), ma perché oggi per noi non è il “giorno di Harry”, è il “giorno di Lav”. Torna alla Mostra dopo aver vinto il Leone d’oro nel 2016 con The Woman Who Left e la selezione di Orizzonti nel 2020 con Genus Pan con un nuovo film dal titolo Where the Waves Are Gone, descritto dal direttore Barbera nella conferenza stampa di presentazione di Venezia 79 come il film più commerciale del regista filippino, con un minutaggio più alla portata di tutti (188’). Il film, per fortuna di tutti noi, è molto di più di questo e noi siamo qui per raccontarvelo.

Quando non ci saranno più le onde. Questo titolo molto poetico che in filippino è Kapag Wala Na Ang Mga Alon, nasconde un film molto diretto e spietato nei giudizi. Lav Diaz punta la sua macchina da presa e la sua poetica contro il regime dell’ex presidente Rodrigo Duterte, raccontando la storia di un tenente della polizia, Hermes Papauran (John Lloyd Cruz), testimone dei crimini del dittatore soprattutto nell’ambito della folle campagna antidroga che la polizia sta conducendo e che uccide più della droga stessa. Il bivio dell’uomo è quello classico: denunciare o non denunciare? Il protagonista sceglie la strada della legalità, aiutato da un giornalista fotografo che sta documentando queste uccisioni, pur conscio che le persone denunciate torneranno e si vorranno vendicare, in particolare il sergente Primo Macabantay (Ronnie Lazaro). L’interrogativo, però, che lancia il regista è: quanto è vera la vendetta nel personaggio di Primo e quanto invece c’è di vergognoso e vigliacco nell’opera del dittatore Duterte? Il film, quindi, da un carattere di giallo-investigativo tinteggiato di drammatico vira nella seconda parte verso un film di matrice politica, di volontà di denuncia, di utilizzo del cinema per raccontare e mettere in evidenza i malesseri del mondo (ricordate cosa diceva il caro Schrader a riguardo?). I personaggi fanno, senza paura, nomi e cognomi, come proprio quello del dittatore, mostrando i crimini e materializzando quel male di vivere che accoglie il popolo filippino. Ecco che la malattia che devasta il tenente Hermes è impressionante, ma come dice lui non è un malessere dell’animo, è lo spirito che è stanco di vedere l’usurpazione e tacere. Lav Diaz, senza fronzoli, in questo suo ultimo lavoro vuol essere il più diretto possibile; non che il suo cinema ci ha abituati a metafore troppo velate o a non-detti, ma questa volta il suo urlo di dissenso è fragoroso al punto di sentire imprecazioni da parte dei protagonisti nei confronti della loro stessa terra di origine. Se la volontà comunicativa è in crescita, l’impianto visivo di Lav rimane sempre lo stesso. È finalmente tornato a girare in pellicola, 60mm, perché per questo film la produzione è più grossa (comprende produttori dal Portogallo, dalla Danimarca, dalla Malesia e dalle Filippine); è sempre in bianco e nero e utilizza sempre la camera fissa. Il montaggio è esiguo e la libertà degli attori nel modellare secondo le proprie volontà la scrittura di Diaz, è sempre ampia, come lui stesso ha sottolineato in conferenza stampa. Poi si sentono i suoni della natura, le luci delle strade dei paesi sono intense, le imperfezioni e le disfunzioni del cinema di Diaz che l’hanno sempre contraddistinto, la polvere, il caldo soffocante delle Filippine sono ben evidenti. L’impianto narrativo appare più discorsivo, più romanzato come è stato per i suoi film dopo The Woman Who Left. Where the Waves Are Gone è un film di finzione ventato e ossigenato da una grossa componente di realtà, di volontà di risvegliare le coscienze e gli occhi, una delle caratteristiche originarie del cinema. Quando non ci saranno più le onde, quindi? Quando trionferà la verità, quando si racconteranno le cose come stanno, quando le persone che si logorano di fronte alle ingiustizie e cercano giustizia, avranno la loro pace. 

È sempre interessante ascoltare Lav Diaz. Anche se amiamo il cinema di questo autore, non siamo troppo di parte nel dire che sentirlo parlare nelle interviste è sempre stimolante. Questo perché Diaz usa parole specifiche di cui conosce il peso e le conseguenze e con cui spiega lo stato delle cose in maniera chiara. Ha sempre il suo solito filo di voce (oltre che il cappello in testa e l’aria da viaggiatore solitario) e un largo sorriso quando risponde alle domande anche le più particolari o pericolose. Nella conferenza stampa ufficiale di Where the Waves Are Gone, il regista è arrivato accompagnato dai suoi due produttori di fiducia, Bianca Balbuena Bradley Liew e dal produttore portoghese Joaquim Sapinho. Il regista inizia con il dire che il progetto di questo film è nato circa cinque-sei anni fa e lo aveva scritto sulla contrapposizione di due pistoleri-gangster; poi l’idea è rimasta congelata ed è stata ripresa dopo il 2020, quando Lav ne ha parlato con i suoi produttori, ha modificato l’idea, a tal punto che i due si sono messi alla ricerca di co-produttori in Europa e a Hong Kong, chiedendogli un po’ di pazienza (è noto che Lav Diaz giri molto e quando vuole senza aspettare i tempi delle produzioni). Balbuena Liew hanno trovato dei produttori che hanno creduto nel progetto, permettendo al film di avere uno sviluppo organico, intervenendo al fine del progresso continuo dell’opera. Sapinho, dal canto suo, ha elogiato innanzitutto il merito di Lav Diaz di fare concretamente film: mentre gli altri li pensano, lui li crea, come il Tintoretto che in un giorno dipingeva teleri di molti metri o stanze intere. Il produttore ha, poi, messo in evidenza come il suo cinema sia di lotta, di resistenza e fornisce prospettive di analisi, perché dice la verità e la gente vuole ascoltare la verità.

Infine ha preso la parola Lav. Si è ricollegato a quanto detto dal produttore, affermando che durante il regime di Duterte i filippini erano abituati alla violenza e lui si è trovato al centro di queste guerra, pertanto ha creduto nel cinema e nel suo potere di mostrare. Ha definito, poi, l’ex presidente un assassino, un vendicatore, che ha creato un finto assalto nei confronti della senatrice De Lima, fino a metterla in prigione (Lav si riferisce alle accuse nei confronti dell’ex ministro di aver estorto denaro ai narcotrafficanti già detenuti nel periodo 2010-2016 quando De Lima era ministra della Giustizia. Le accuse erano ovviamente infondate, ma hanno costretto la donna a consegnarsi volontariamente alla polizia. La senatrice De Lima è stata la principale oppositrice del regime di Duterte). Il regista, poi, ha confermato che il personaggio del giornalista-fotografo esiste realmente e ha fatto la foto che Hermes mostra e che suscita la sua reazione; Where the Waves Are Gone trae proprio ispirazione dal suo lavoro. Quando poi Diaz ha risposto alle domande più dirette sul suo fare cinema ha affermato che vede nella nuova generazione di registi filippini qualche voce fuori dal coro che lavora molto bene e ha ricordato come lavorava lui negli anni Novanta. Per fare film e per pagare i suoi attori era costretto a fare tre lavori e conservava la pellicola in frigorifero, bene preziosissimo che non poteva sprecare per ragioni di budget. Infine ha concluso che il film nelle Filippine sarà sicuramente censurato! Non preoccuparti Lav, il mondo vedrà comunque la tua opera integra e aprirà gli occhi su ciò che accade nel tuo Paese.

Abbiamo qualcosa da dire a La Biennale e al Direttore. Ecco appunto, aprire gli occhi. Una riflessione che ci è sorta a margine della visione del film e della conferenza stampa è come mai quando è stato presentato il film in conferenza stampa il direttore Barbera ha pensato bene di porre l’attenzione sul minutaggio del film e non ha spiegato la sua essenza politica? E poi, come mai in concorso è presente il film di Jafar Panahi, No Bears, e non abbiamo nulla da ribattere a riguardo, e in tutte le selezioni sono presenti ben altri tre film iraniani, espressamente voluti dal direttore in opposizione al regime iraniano che detiene ingiustamente Panahi, mentre invece Where the Waves Are Gone è fuori concorso? È poi, cara Biennale, che hai dato giustamente spazio, e non abbiamo anche qui nulla da obiettare, durante la cerimonia di inaugurazione a un video del presidente dell’Ucraina Zelensky che denunciava le barbarie inaccettabili della guerra perpetrata dalla Russia nei confronti del suo popolo, perché non hai dato il giusto spazio al messaggio del film di Lav Diaz? Perché, quindi, non tenere la barra della denuncia dritta e rigida fino alla fine? Quanti interrogativi, quante risposte non date! Non crediamo, seppur probabile, che il regista filippino abbia rifiutato di stare in concorso, posto tra l’altro meritevole per un ex Leone d’oro, in quanto la sua determinazione nella denuncia in tutte le sue dichiarazioni in giro per il mondo è sempre stata forte. Insomma ci sembra che chi decide, ma ci possiamo anche sbagliare, a partire dalla coppia CicuttoBarbera, non abbia avuto la voglia reale di issare la Mostra a vessillo delle ingiustizie e di accontentarsi, quasi, di cavalcare le onde mediatiche. Sono lontani i tempi in cui la Mostra premiava La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo sfidando la Storia.

Brevissime news dalla sala stampa. Per oggi vi abbiamo detto anche troppo. Vi relazioniamo brevemente su un paio di dichiarazioni. Martin McDonagh torna al Lido dopo aver conquistato critica e pubblico con Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Sempre in concorso ha presentato The Banshees of Inisherin in cui ritornano a recitare insieme Colin Farrell Brendan Gleeson che avevano già recitato insieme in un altro film del regista, il cult In Bruges. L’intento di McDonagh era infatti riunire questi due attori insieme, tornare a fare qualcosa con loro, in Irlanda, specialmente nella parte occidentale, come affermato. Il regista ha poi aggiunto che: “I luoghi dove abbiamo girato sono quelli in cui andavo da bambino”. Farrell a tal proposito ha affermato: “Lavorare nei mondi e con i personaggi che crea Martin è straordinario”. “Erano 14 anni che non lavoravo con Brendan poi, il sistema di lavoro rimane lo stesso, cambia ovviamente il modo di esprimerlo, a seconda della storia, del cast. Abbiamo immaginato come potesse essere il tutto prima di girare, volevamo essere a nostro agio con il materiale”. Sempre brevemente vi diciamo che The Banshees of Inisherin (uscirà in Italia il 2 febbraio 2023 con il titolo Gli spiriti dell’isola) è ambientato nel 1923 su un’isola al largo della costa occidentale dell’Irlanda. Qui vivono due amici di lunga data, Padraic (Colin Farrell) e Colm (Brendan Gleeson) il cui rapporto si incrina quando il secondo decide bruscamente di porre fine alla loro amicizia. Padraic, così confuso, tenta di riallacciare il loro rapporto con il supporto di sua sorella Siobhan (Kerry Condon) la quale insieme a Dominic (Barry Keoghan), il figlio del poliziotto locale, ha le sue preoccupazioni all’interno della piccola comunità dell’isola. Quando Colm lancia un ultimatum per dare fondo alle proprie intenzioni, gli eventi iniziano a degenerare.

Abbiamo quasi finito. Prima di chiudere, però… Arriva in concorso a Venezia 79 il giapponese Kōji Fukada, che esordisce in gara a Venezia con Love Life (nelle sale dal 9 settembre). Il protagonista del film è Taeko (Fumino Kimura) che vive serenamente con il marito Jiro (Kento Nagayama) e al figlio. Un evento drammatico, però segna il ritorno del padre biologico del bambino (Atom Sunada), di cui la donna non aveva notizie da anni. A riguardo del suo film Fukada ha affermato: “Quando creo un film mi piace sempre proporre elementi credibili, uno si poggia sulla convinzione che prima o poi si muore, l’altro è la solitudine”. Poi ha aggiunto: “Per rappresentare la solitudine, però, preferisco non concentrarmi su una persona che vive in condizioni di isolamento, piuttosto inserirla in un contesto di coppia, o familiare, perché ritengo più interessante coglierla nel momento in cui un individuo si accorge di essere solo anche se circondato dagli altri”. Guardiamo domani il film, così vi spieghiamo qualcosa in più. 

A domani cari lettori. Come state già facendo, scriveteci a staff.linkinmovies[at]gmail.com.

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