giovedì, Giugno 8, 2023

Come C.P. Company è diventato uno dei nostri marchi preferiti

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«Non si sa perché», dichiara Paul Harvey, «ma esistono alcuni capi che appena indossati riescono a trasmettere a pelle la propria essenza… capisci al volo che sono stati fatti nel modo giusto… e mi piace pensare che questo sia ancora oggi la sensazione regalata dai prodotti di abbigliamento di C.P. Company». Harvey è seduto nella sede centrale C.P. di Bologna, accanto all’altro responsabile del design dell’azienda, Alessandro Pungetti e a Enrico Grigoletti, direttore marketing del marchio italiano. Alle loro spalle si intravede la presenza di quello che si suppone possa essere un archivio di abbigliamento sportivo funzionale ma alla moda, un’ambientazione giustificata dall’illustre storia di oltre 50 anni di C.P. Company come fornitore sportswear all’avanguardia.

La supposizione è sbagliata. «Personalmente», confida Harvey, «non so dove sia l’archivio in questo momento». Dietro di loro ci sono, invece, le collezioni future: campioni di tessuto e bozzetti che sono alla base delle prossime produzioni del marchio.

Sebbene possa apparire strano, non è del tutto inaspettato che le persone all’interno di C.P. Company siano concentrate a lavorare sull’Autunno/Inverno 2024 e non sul passato. Sembra strano perché, parafrasando un po’ Harvey, chi se ne intende sa che gli archivi di C.P. Company sono tra i più rilevanti nella storia recente dello sviluppo degli indumenti e dell’innovazione tessile. All’insaputa dei più, il lavoro di C.P. Company ha plasmato lo stile di ciò che le persone indossano quotidianamente. L’innovazione tessile e lo sviluppo dei capi del marchio si sono diffusi lungo la piramide della moda, prima ad altri brand di abbigliamento esterno e sportivo, poi a una nuova generazione di prodotti techwear e, infine, anche allo streetwear. I 40.000 capi unici che hanno portato la firma C.P. Company hanno cambiato il modo in cui gli stilisti pensano ai vestiti e a quanto i clienti si aspettano da un marchio in termini di utilitarismo e stile. 

C.P. Company fu fondata nel 1971 dall’ormai celebre designer tessile italiano Massimo Osti. Fino al 1978 è stata conosciuta come Chester Perry, quando un paio di cause legali, una da parte di Fred Perry e l’altra da parte di Chester Barry, l’hanno costretta a cambiare nome. Attualmente Osti si è creato la nomea dell’uomo che ha lanciato gli innovativi swishy-pant Stone Island. Nonostante sia poco conosciuta, C.P. Company è stata sotto molti aspetti l’incubatrice e la progenitrice non solo di Stone Island, ma anche di un’ampia fetta dell’abbigliamento sportivo e tecnologico contemporaneo. Il marchio ha una presenza relativamente ridotta in Nord America, mentre in Inghilterra sono in molti a credere che si tratti di un marchio inglese per via del suo legame con la cultura del calcio da stadio.

Nel 1973, appena due anni dopo aver fondato il marchio, Osti ha sperimentato la tintura in capo, un processo che prevede prima la realizzazione di capi di abbigliamento a partire da tessuti grezzi e non colorati, e poi la tintura. La novità apportata da Osti e C.P. Company è stata l’applicazione di questa tecnica a capi realizzati con tessuti e stoffe diverse, in modo da creare palette di colori ricche e variegate che grazie all’invecchiamento e all’usura, sviluppavano patine vintage sorprendenti. Nel 1981, C.P. Company fu la prima a tingere in capo i tessuti sintetici, anziché quelli naturali: un processo che Stone Island avrebbe poi trasformato nel suo marchio di fabbrica. Alle origini, però, la tintura in capo è sinonimo di C.P. Company.

L’uso della tintura in capo è particolarmente efficace se si pensa all’aspetto effettivo dei vestiti C.P. Company: il processo finisce per trasformare completamente una tela altrimenti fredda e incolore. I capi hanno un’aria militaresca che a volte sfiora la distopia, come la famosa giacca Mille Miglia del marchio munita sul cappuccio di un paio di occhialini pieghevoli che ricordano le maschere antigas dell’epoca della guerra di trincea. L’abbondanza di tasche ingegnosamente posizionate o di scomparti con zip intelligenti è tale da non lasciare l’illusione che questi capi siano destinati a servire uno scopo reale: si tratta di un design freddo e calcolato. Ma, come sottolinea Pungetti, la tintura in capo conferisce «un particolare calore e qualcosa di più romantico». Grigoletti, il direttore marketing, sottolinea che «la tecnica della tintura in capo aggiunge sfumature e un tocco umano».

Inoltre, permette a C.P. Company di creare pezzi che sfidano ogni immaginazione e convinzione. Errolson Hugh, cofondatore di Acronym, ricorda ancora la prima volta che ha ammirato un giubbotto telato in blu, mentre visitava lo Studio Osti a Bologna, a metà degli anni ’90. «L’ho visto addosso a Lorenzo Osti, figlio di Massimo, mentre entrava nello studio», ricorda. «Sono rimasto a bocca aperta e ovviamente da quel momento in poi nulla è stato più come prima». Questo è un tema ricorrente quando si parla di C.P. Company. «C’era questa giacca Watch Viewer color magenta di due o tre anni fa che sembrava quasi carta crespa», testimonia Daniel Sandison, cofondatore e caporedattore di Mundial, la rivista incentrata sulla cultura calcistica, ed ex di Hypebeast. «Era rosa acceso quando tutti gli altri indossavano una giacca Stone Island nera. Adoro quel capo perché ti faceva sembrare un paninaro a Milano nel 1982».

Tale estetica è il fulcro dell’identità di C.P. e del suo successo, in particolare sugli spalti del calcio britannico. «Siamo di fronte allo stile di Osti», precisa Sandison. «All’inizio degli anni ‘90 sembrava inaccessibile e lussuosa: non era l’estetica della classe operaia britannica che desiderava sentirsi come se fosse di Firenze o di Milano. Si trattava di dare l’impressione di trovarsi in barca e non in un quartiere popolare».

C.P. Company è stata in qualche modo vittima del suo stesso successo: Osti ha aperto la strada a una nuova generazione di marchi di abbigliamento tecnico, da Acronym, Guerrilla Group e Nemen fino a Stone Island, e allo stesso tempo ha fatto sì che i marchi più tradizionali si avvicinassero alla crescente domanda di abbigliamento sportivo funzionale. Ha sperimentato tecniche che oggi sono più strettamente associate ai marchi concorrenti. Ha contribuito a creare il modello dell’estetica del techwear moderno: le tasche, i tessuti, l’etica utilitaristica urbana alla base del design dei vari modelli.

Secondo Hugh, appena ti occupi di abbigliamento tecnico, «l’influenza di C.P. Company risulta inevitabile ed è incredibilmente pervasiva, ma non in modo palese. Bisogna prestare attenzione. C.P. non ti insegue, è lì finché non sei pronto a notarlo. E quando lo fai, ti si apre un mondo intero. Voglio dire, un solo esperimento di C.P. ha portato alla creazione di Stone Island». A detta di Hugh, l’influenza di C.P. è più evidente come filosofia. «Non significa tanto un ‘dovere fare la stessa cosa’, quanto arrivare a considerare che ‘se quella cosa è possibile, allora forse lo è anche ciò che di innovativo stiamo cercando di realizzare’».

A conferma di ciò, sono pochi i marchi che hanno tentato di replicare quella visione «romantica e calda» dell’abbigliamento tecnico sportivo di cui C.P. è stata pioniera, per non parlare di quelli che sono riusciti a raggiungere un simile obiettivo.

In parte ciò è dovuto al fatto che C.P. ha qualcosa in più rispetto agli altri, afferma Harvey, designer anche di Stone Island. I due marchi sono entità distinte e non appartengono più alle stesse società madri; l’unico legame attuale tra i due è che sono stati fondati da Osti. «C.P. ha un’enorme eredità alle spalle, che gli conferisce un’enorme credibilità. Chi ama la moda riconosce che abbiamo sempre fatto questo tipo di capi e sappiamo bene come realizzarli».

Hugh conferma che «C.P. è ormai sinonimo di una realtà che ha piena padronanza di innumerevoli dettagli, di un ampio vocabolario di materiali, tecniche, trattamenti e idee di design». Anche se gli altri sono ispirati dal passato di C.P., Harvey e Pungetti sono attenti a non farne una stampella. «Non ricordo l’ultima volta che abbiamo preso qualcosa dall’archivio», afferma Harvey, spiegando che la storia del marchio è «molto più un’eredità che un punto di riferimento». Per Grigoletti è necessario trovare un delicato equilibrio: «È molto facile perdersi in ciò che abbiamo fatto in passato, ma la visione di C.P. Company è sempre stata rivolta al futuro».

Ad ascoltare Grigoletti, Pungetti e Harvey è chiaro che le cose stanno ancora così; si percepisce tanto entusiasmo ed energia, ma anche un enorme tranquillità e sicurezza nel modo in cui parlano dei prossimi progetti.

Pungetti è rapido e diretto quando gli viene chiesto se nelle collezioni Autunno/Inverno 2022 o Primavera/Estate 2023 è presente un capo che potrebbe diventare il nuovo segno distintivo del marchio: la prossima giacca Mille Miglia. «Gore-Tex tinto in capo», risponde senza esitare, prima ancora che Grigoletti finisca di ripetergli la domanda in italiano. 

«Non si dovrebbe tingere in capo il Gore-Tex», spiega Harvey. «Tuttavia», aggiunge Grigoletti, «quando tutti i membri dell’azienda hanno visto il pezzo, hanno detto che questo è al 100% C.P. Company, ma non in modo nostalgico». È profondamente C.P. Company in quanto porta la tintura in capo a un nuovo estremo: «una super tecnologia», chiosa Pungetti.

La sostenibilità è un’altra frontiera verso la quale C.P. Company intravede un potenziale di innovazione. Si tratta di uno dei motivi per cui il marchio è restio a rieditare i propri pezzi d’archivio. «A cosa serve riprodurre qualcosa che è stato fatto negli anni ’80, se poi si toglie valore al fascino dei pezzi originali?» si chiede Harvey. Al di là di questo, però, dato che l’industria della moda è particolarmente infestata dal greenwashing, C.P. Company vuole concentrarsi sullo sviluppo di nuovi tessuti sostenibili, adattabili e utili. «È bello sentire parlare di pellami derivati da funghi o di innovazioni del genere», afferma Grigoletti, «ma lavorare su scala industriale significa promettere qualcosa che probabilmente non si può mantenere». Nella primavera/estate 2023, il marchio introdurrà un tessuto a base di semi di ortica, simile al lino, ma più sostenibile. L’idea è quella di valutare la domanda prima di spostare la produzione dell’ortica dalla Cina all’Italia. «In pratica stiamo affermando che questo è il punto in cui ci troviamo ora», spiega Harvey, «se la domanda c’è, possiamo arrivare al chilometro zero».

In totale armonia con lo stile C.P. Company, quando tutti gli altri sono impegnati a guardare i propri archivi, loro si concentrano sul futuro.

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