mercoledì, Dicembre 4, 2024

La guida di George Saunders alla compassione, al perdono e alla ricerca della speranza in mezzo alla distopia

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A 63 anni, George Saunders, un tempo ingegnere geofisico che si è fatto notare, nel bel mezzo
della mezza età, come lo scrittore di narrativa forse più celebrato d’America, sta affrontando
domande su chi sia veramente. «Ci sono così tanti sé diversi che rimbalzano e che si fanno sentire
in momenti diversi», ha detto, rispondendoci al telefono dalla sua casa in California. «A questo
punto della mia vita mi guardo indietro e mi chiedo: qual era il me stesso che mi piaceva di più? E
come ho incoraggiato quel me stesso a farsi avanti? E quando, invece, sono al mio peggio? E
perché questo sé peggiore si fa sentire? Avanza l’idea che la nostra presenza morale nel mondo
abbia a che fare con l’incoraggiamento di questi sé». La questione dell’evoluzione del sé è uno dei fili conduttori delle storie della nuova raccolta di Saunders, Liberation Day. Come nelle sue raccolte precedenti – tra cui CivilWarLand in Bad Decline e Tenth of December, finalista al National Book Award – i suoi personaggi si trovano spesso ad abitare assurdi mondi fantastici (che questa volta includono un parco di divertimenti sotterraneo, un sistema distopico di intrattenimento umano e un’oscura organizzazione di protesta politica) mentre affrontano una domanda fin troppo reale: perché così spesso non riusciamo a essere migliori di noi stessi? Gran parte del lavoro di Saunders – i suoi racconti, ma anche la sua saggistica, il suo discorso virale di laurea a Syracuse, dove è professore di inglese, e il suo primo romanzo, Lincoln in the Bardo, vincitore del Man Booker Prize 2017 – ruota intorno a questa domanda. Le sue risposte sono spesso esilaranti e profondamente commoventi, e hanno fatto guadagnare a Saunders un MacArthur “genius” Grant e schiere di fan. Ma il vero marchio di fabbrica di Saunders è forse la sua compassione. Scrive con un’umanità che si allontana dal giudizio e va verso una comprensione più profonda della vita dei suoi personaggi. Al giorno d’oggi, spesso ci sembra di vivere in una delle sue distopie: la nostra terra della Guerra Civile in cattivo declino. Perciò è rassicurante che George Saunders riemerga e ci guidi attraverso il caos.

Qual è, secondo lei, l’idea che anima e tiene insieme queste storie?
«Dal paragrafo all’intreccio della trama succede un po’ come quando chiedi all’optometrista, “È meglio questo o è meglio quest’altro?”. È tutto intuitivo. Credo che ci sia qualcosa in me che viene fuori meglio in questa modalità rispetto a quando mi impongo di fare una certa cosa. È come le montagne russe: arrivi alla fine e non stai analizzando, sei semplicemente seduto lì con una specie di sorriso folle sul viso».

Però poi quando lo riguardi sei obbligato a pensare di dover affrontare certi temi in un certo
modo…
«Ovvio! Perché ho scelto il titolo di Liberation Day? Il libro riflette molto sul fenomeno dell’essere
vivi ma a disagio. E poi c’è l’eterno sogno umano, secondo cui ci sarà un momento trascendente in
cui non dovremo sentirci vivi e a disagio e saremo semplicemente vivi. Quindi [le storie] potrebbero essere una serie di persone che cercano di liberarsi ma non ci riescono. Il mio punto di partenza è stato che ciò che rende infelici è l’attaccamento disfunzionale a se stessi, l’ego e tutto il resto. Ma poi, mentre scrivevo le storie, ho notato che ad alcune persone piace molto essere se stesse. Almeno questo concetto vale per me. Voglio dire, mi piace l’idea di non essere attaccato a me stesso ma – accidenti! – poi non riesco mai a leggere le recensioni dei miei libri. Quindi forse in
fondo si tratta di riconoscerlo e basta. Non è così facile riflettere su queste cose, capisci? Se ti dici
di non voler essere attaccato al tuo ego, ti faccio i complimenti. Però non prendiamoci in giro: tutti
noi amiamo noi stessi. Ecco perché è così difficile liberarsi. Ancora una volta, questo non è
assolutamente quello a cui stavo pensando mentre scrivevo. Ma mentre lo leggevo, ogni storia
sembrava parlare di qualcuno che cercava di liberarsi e poi inciampava nei propri piedi».

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