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Il 5 dicembre 2002 Le Due Torri entrava nelle nostre vite. Si esatto, sono già passati vent’anni, ed invece pare soltanto ieri che si faceva la coda come oggi si vede veramente di rado di fronte ad una sala cinematografica, e ancora più di rado capita di esaltarsi nell’attesa che le luci vengono spente, che lo spettacolo cominci. Certo qualcuno dirà che in fondo il tempo passa, che invecchiando non ci si stupisce più di niente, ma in questo caso non è una scusa che regge, perché la verità è che Peter Jackson fu capace di regalarci il più grande film fantasy di tutti i tempi, superando se stesso e anche nobili fonti di ispirazione che lo avevano guidato verso quel titanico risultato. Perché esteticamente, semanticamente e per capacità di innovare il concetto di lungometraggio, quel secondo capitolo della Trilogia probabilmente rappresenta la perfezione assoluta, rimane inimitabile ed inimitato.
Una trilogia unica per ambizione e coraggio
Col senno di poi, Peter Jackson era arrivato nel momento giusto, a cavallo tra il XX e XXI secolo, quando il cinema ancora credeva negli autori ed era disponibile a versare cifre astronomiche per permettergli di a realizzare il proprio progetto, con buona pace di algoritmi e proiezioni varie.
Guardiamo in faccia la realtà: oggi, come ricordato da tantissimi cineasti della vecchia guardia, le produzioni hanno ormai un potere ancora più dittatoriale rispetto al passato, hanno messo la museruola ai registi, che sono ridotti sovente a meri esecutori materiali, privati di ogni possibilità espressiva. Ma soprattutto si sceglie di coccolare il pubblico seguendo una visione alquanto prevedibile, sterile, paternalistica. Avrebbe avuto Peter Jackson in questi tribolati anni di sterilità cinematografica, la possibilità di creare una trilogia così complessa dal punto di vista realizzativo e produttivo? Qualcosa ad un tempo moderno ed antico, pionieristico per quello che riguardava l’utilizzo della tecnologia digitale ma anche tradizionale nella volontà di non abusarne? Ma ovviamente no, oggi si vuole avere tutto e subito, nel minor tempo possibile e nel modo più facile.
Il tempo. Ecco il segreto dietro questa perfezione, il tempo. Per Jackson era il sogno di un’intera vita, per la Miramax e la New Line Cinema si trattò di otto anni e di lavoro e un budget di 281 milioni di dollari (per l’epoca un’enormità quasi scandalosa) e un numero di artisti coinvolti spaventoso. Da grande esperto di sogni e narrazione, Jackson però sapeva perfettamente che la computer grafica, elemento basilare per la trilogia, era e rimane ancora oggi una grande risorsa, ma non doveva mai essere troppo preponderante, pena il privare l’insieme di realismo, di credibilità, di umanità. Una lezione che il cinema dei nostri giorni ha assolutamente dimenticato e che Jackson e la Warner avrebbero scoperto paradossalmente a proprie spese un decennio più tardi, nell’incostante e tormentata trilogia derivata, quella dedicata a Lo Hobbit.
Ma intanto, 20 anni fa il regista neozelandese creava un fantasy kolossal la cui post-produzione durò quasi 2 anni e le cui riprese si sovrapposero per un certo periodo di tempo a quelle del primo, meraviglioso film, ancora oggi probabilmente il più amato della saga: la Compagnia Dell’Anello.
Oggi che i multiversi cinematografici sono ormai diventati enormi pachidermi privi di emozioni e di una reale capacità di immersione, stritolati nel piccolo e grande schermo da ritmi ripetitivi e stantii, risulta sicuramente impressionante come questo film messo a confronto, sia capace di rivendicare sostanzialmente la perfezione in ogni ambito. Le Due Torri aveva una dimensione macro-narrativa sontuosa, su cui si incastravano le tante piccole storie e i tanti protagonisti creati dal genio di J. R. R. Tolkien 65 anni prima e a cui il regista neozelandese cercò di rendere giustizia meglio che poté. Certo, ancora oggi i puristi del grande autore hanno qualcosa da ridire sulle scelte di Jackson, che qui ancora più che negli altri due film, cambiò, modifico e eliminò diversi elementi ai fini di una migliore narrazione cinematografica. Ma siamo onesti, nulla era casuale, nulla era distante dalla visione di Tolkien o irrispettoso, quanto perfettamente coerente con la sua volontà di parlarci di un dramma che da privato diventava universale, così come era stato per l’autore partecipare al primo, terrificante, conflitto mondiale.
La perfezione di un fantasy realistico
Le Due Torri l’abbiamo visto tutti almeno una decina di volte, i più affezionati hanno anche collezionato la director’s cut, altro piccolo tassello da aggiungere a qualcosa che poi il cinema ha completamente sdoganato. Ed allora basta chiudere gli occhi, ed ecco che rivediamo Frodo e Sam che si dirigono verso Mordor, e fanno la conoscenza del tormentato ed infido Gollum, meraviglia della Weta Digital e della performance capture, a maggior gloria del londinese Andy Serkis. Anche questa tecnologia oggi è d’uso comune ed è un altro regalo che Jackson fece alla fabbrica dei sogni. Proprio grazie a questo personaggio, il regista fece fare all’insieme un salto di qualità enorme, con una metafora del potere che distrugge anima e corpo dell’uomo, da aggiungersi ad altre sparse attraverso quel racconto. Il film partiva da due missioni parallele, poi diventava un un’enorme torrente in piena che cresceva, si alimentava con il dramma di Rohan e del suo Re Theoden (Bernard Hill), umanissimo ma coriaceo. Il tutto per guidarci verso quel gran finale, verso la battaglia cinematografica più incredibile mai concepita, un assedio in cui Jackson letteralmente tolse il fiato ad ogni spettatore, onorando Tolkien, le sue memorie belliche sulla trincea, sulla morte che assedia ogni cosa.