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Da più di trent’anni si cerca di capire cosa sia la materia oscura, l’elusiva componente di cui sarebbe formato circa l’85% della massa dell’universo. Osservazioni sperimentali, infatti, indicano che la sola materia visibile (detta anche ordinaria), cioè quella in grado di emettere radiazioni elettromagnetiche, non sarebbe presente in quantità sufficienti per spiegare il comportamento di numerosi fenomeni astronomici, suggerendo che esista qualcos’altro in grado di indurre una serie di effetti gravitazionali sulla materia ordinaria stessa. In effetti, l’esistenza di un tipo di materia non visibile – e chiamata per questo oscura – è discussa da oltre un secolo: il problema è che, pur essendo ben rilevabile la sua influenza a livello gravitazionale, la materia oscura è incredibilmente sfuggente all’osservazione diretta. Gli scienziati finora l’hanno cercata senza successo, proponendo diverse ipotesi, di cui una delle più accreditate è quella che si tratti di particelle pesanti debolmente interagenti, ma anche, tra le altre congetture avanzate, che essa derivi da particelle elementari appartenenti alle prime fasi di vita dell’universo o che addirittura provenga da un altro universo, specchio del nostro. Insomma, di qualsiasi cosa si tratti, la materia oscura non è ancora stata trovata: nonostante ciò, gli scienziati ribadiscono l’importanza di continuare a cercarla, auspicabilmente, come riporta un articolo del 2018 pubblicato su Nature, diversificando gli sforzi sperimentali e incorporando a essi approcci diversi.
Per esempio, alcuni studi pubblicati di recente suggeriscono nuovi possibili modi con cui cercare la materia oscura. In particolare, in un caso i ricercatori hanno ipotizzato l’impiego di uno speciale tipo di rivelatori all’avanguardia, costituiti da superconduttori, mentre in un altro hanno proposto come rivelatori altamente sensibili di ipotetiche particelle di materia oscura trappole di elettroni, generalmente utilizzati per il rilevamento della materia visibile; un altro gruppo di ricercatori, invece, vuole andare a caccia della materia oscura nello Spazio con precisissimi orologi atomici. Nel frattempo, gli scienziati del Cern di Ginevra hanno appena pubblicato uno studio secondo cui la materia oscura potrebbe aver avuto origine da particelle di antimateria in grado di viaggiare per lunghissime distanze, attraverso la Via Lattea, senza interagire con la materia ordinaria. Grazie a tutti questi approcci, anche piuttosto diversi tra loro, gli scienziati sperano di risolvere uno dei misteri più profondi del cosmo.
Materia oscura: dedotta, ma mai trovata (finora)
Facciamo un passo indietro, perché tutto comincia con il cosiddetto Modello Standard della fisica delle particelle, un modello teorico che descrive la materia ordinaria e le forze che interagiscono tra loro all’interno dell’universo. Al momento il Modello Standard è l’impianto teorico più solido e meglio verificato sperimentalmente per rappresentare il mondo che ci circonda, ma non è perfetto: nel corso del Novecento, infatti, astronomi e cosmologi hanno cominciato ad accumulare diverse osservazioni sperimentali legate soprattutto a fenomeni dovuti alla forza gravitazionale che non potevano essere descritti correttamente con le equazioni del Modello Standard. Tra queste, per esempio, la velocità di rotazione delle stelle e delle galassie, alcune caratteristiche della radiazione cosmica di fondo e la flessione della luce visibile nello Spazio noto come lente gravitazionale.
Se si considerano unicamente le particelle della materia visibile, infatti, questi fenomeni non possono essere spiegati: per questo nel corso degli anni si è fatta avanti l’idea che esista un altro tipo di materia, con caratteristiche differenti dalla materia ordinaria (e quindi non osservabile con i metodi con cui essa normalmente si rileva), in grado però di interagire gravitazionalmente con essa, la materia oscura. Adesso si stima che la materia oscura costituisca ben l’85% della materia presente nell’universo e circa il 27% della sua massa totale. Nonostante la sua abbondanza, però, questo tipo di materia è decisamente sfuggente e finora si sono raccolte solo prove indirette della sua esistenza: per questo motivo, al momento non si sa da cosa essa sia costituita, né come interagisca nel dettaglio.
In effetti, gli scienziati che lavorano agli esperimenti eseguiti nei grandi rivelatori di particelle sotterranei, con i satelliti nello Spazio o attraverso gli acceleratori di particelle come il Large hadron collider (Lhc) del Cern, sperano di avere un colpo di fortuna e di riuscire a trovare una minuscola interazione non gravitazionale con la materia ordinaria. Proprio per la sua natura sfuggente, però, si tratta di un’impresa ardua e finora la materia oscura non è stata mai osservata direttamente. Come scrive Gianfranco Bertone, fisico delle particelle dell’Università di Amsterdam su Nature, “c’è un crescente senso di “crisi” nella comunità di chi studia le particelle di materia oscura, che deriva dall’assenza di prove per i candidati più popolari – come particelle massicce debolmente interagenti, assioni e neutrini sterili – nonostante l’enorme sforzo speso per la ricerca di queste particelle”. Ecco perché, secondo il ricercatore, c’è anche bisogno di diversificare gli sforzi sperimentali.
Superconduttori ed elettroni come rivelatori
In uno studio pubblicato lo scorso giugno su Physical Review Letters, Jeff Chiles e Sae Woo Nam, ricercatori del National institute of standards and technology (Nist) statunitense, hanno voluto testare, come rivelatori di materia oscura, nanofili superconduttori di siliciuro di tungsteno. Alcuni materiali come il siliciuro di tungsteno, infatti, a temperature ultrabasse non mostrano alcuna resistenza al flusso di corrente elettrica e per questo sono noti come superconduttori: sistemi formati da fili ultrasottili di questo materiale sono per questo incredibilmente sensibili a quantità estremamente piccole di energia provenienti dai fotoni; proprio per questo, i ricercatori hanno ipotizzato che i nanofili superconduttori potessero rilevare, oltre alle particelle di luce, anche ipotetiche particelle di materia oscura. L’esperimento consisteva nella costruzione di una piccola matrice quadrata di nanofili di siliciuro di tungsteno, ciascuno di 140 nanometri di diametro, confinati all’interno di una sorta di scatola costruita con materiali in grado di isolare la luce, in modo che fosse più probabile che il sistema venisse colpito da particelle oscure. Secondo le previsioni teoriche, se un fotone oscuro avesse colpito il materiale isolante, avrebbe generato un normale fotone infrarosso e quindi un segnale facilmente rilevabile sperimentalmente. Sebbene l’esperimento, durato 180 ore, non abbia trovato prove di particelle oscure nell’intervallo di massa prestabilito dagli scienziati (quello delle particelle più leggere esistenti, pari a mezzo milionesimo della massa di un elettrone), secondo gli autori, si tratta per il momento dell’indagine più sensibile sui fotoni oscuri eseguita fino a oggi: Chiles ha infatti affermato che, nel futuro, una versione più grande di questo sistema potrebbe offrire un contributo significativo alla ricerca della materia oscura.