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Titanic compie un quarto di secolo, lo fa per ironia nel momento esatto in cui James Cameron ritorna sul grande schermo facendo la stessa cosa che fece a quel tempo: alzando la posta oltre ogni limite, costringendo il banco ad arrendersi. Nessuno allora poteva prevedere che cosa sarebbe successo, quale impatto avrebbe avuto quel film che di fatto, oltre ad essere uno dei più importanti della storia per il successo che conobbe e per l’adorazione che suscitò, segnò anche un punto di svolta nel rapporto tra le grandi produzioni e il pubblico. Ma oggi che si festeggiano i 25 anni dell’ultimo vero colossal della storia, è forse il caso di chiedersi se veramente quel melodramma innalzato sui resti del più famoso naufragio della storia meritasse davvero tanto amore, tanta adorazione. E se invece ci fossimo fatti ingannare dalla magnificenza di un racconto bello e inconsistente come gli amori estivi?
L’ultimo grande colossal della storia
Il mondo si divide in due categorie: chi ancora oggi ama follemente Titanic e chi invece già dopo poco tempo aveva smaltito la sbornia di quella che all’epoca, parte della critica indicò come una gigantesca creatura sgraziata e malfatta narrativamente, per quanto titanica (è proprio il caso di dirlo) nell’estetica e nella potenza visiva. 285 milioni di dollari, un budget semplicemente folle per l’epoca, più una quantità semplicemente assurda di maestranze, fedeli alla volontà di riportarci indietro nel tempo, inseguita in modo ferale da una terrificante massa di fuoco messa in campo dalla produzione, in modo quasi sprezzante.
Milioni di metri quadrati di costa acquistati perché di fare il naufragio per interni non se ne parlava, non avrebbe funzionato, Cameron lo sapeva, dovevi bagnarti di brutto. E allora via tra Messico e Nuova Scozia, a bordo della nave oceanica russa Keldyš, con una cisterna da 76 milioni di litri per ricreare l’agonia dei 1500 sulla nave “inaffondabile”. Perché James Cameron capiva, ha sempre capito meglio degli altri come utilizzare al meglio i trucchi e le illusioni per creare la verità, per ricreare la realtà, per convincerci anche delle cose più incredibili e fantasiose. Un fatto che lo rende da sempre più che un regista narrativo, un regista visivo.
Perché diciamocelo chiaramente, il cineasta canadese da Terminator a True Lies, da Aliens – Scontro Finale ad Avatar, ha sovente pescato a piene mani da ciò che molti altri avevano fatto prima di lui, creando iter narrativi non particolarmente innovativi o complessi, fedele alla sua volontà di donare al pubblico qualcosa di affascinante ma mai criptico. E si sa che bene o male, come diceva Walter Hill, l’uomo ripete le stesse storie dall’alba dei tempi, da quando lo faceva Omero di fronte ad un fuoco, ne cambia semplicemente lo sfondo, i dettagli, la tela su cui muovere il suo pennello.
E in Titanic, 25 anni fa, James Cameron dipinse probabilmente il film più complesso, audace e rischioso che si fosse visto fino a quel momento, qualcosa che tutti capirono appena lo videro in sala. Qualcuno magari dirà che con un film così era difficilissimo fallire al botteghino, ma se guardiamo a tonfi del passato, se pensiamo a la Caduta dell’Impero Romano di Anthony Mann o Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz, ci si accorge che Hollywood ha sempre avuto le maggiori fortune ma anche le maggiori disgrazie da questo genere.
Titanic, film assolutamente distante da quello che era il clima cinematografico di quegli anni ‘90, con la fantascienza, il cyberpunk, il pulo e l’action che ruggivano dentro la rivoluzione tecnologica, con i primi supereroi che si palesavano, ebbe incredibilmente successo.
Ciò per tutta una serie di motivazioni e scelte, di cui James Cameron si prese la responsabilità e di conseguenza anche il merito. Tuttavia, scevri da ogni passatismo, romanticismo o nostalgia, dobbiamo anche ammettere che per quanto stupendo, Titanic era e rimane in quanto colossal, anche connesso a debolezze innegabili e macroscopiche. Queste riguardavano l’incapacità di decidere se quel film fosse un melodramma amoroso nascosto dentro ad un colossal catastrofista o il contrario, così come l’eccesso di retorica e la scarsa profondità data ai personaggi di contorno, divisi banalmente tra buoni e cattivi. Il tutto poi senza dimenticare la mancanza di una chiara capacità di accelerare il ritmo, la prevedibilità di diversi momenti narrativi e la debole costruzione di quella storia d’amore, che doveva vivere di qualcosa di più di un gioco di sguardi a volte veramente ripetitivo.
Jack, Rose e il sogno dei vent’anni
Leonardo Di Caprio è stato senza ombra di dubbio il più grande regalo di Titanic, che lo lanciò definitivamente. Talento già benedetto da grande considerazione, riuscì dove Matthew McConaughey, Chris O’Donnell e Stephen Dorff avrebbero fallito: farci credere in Jack.
Quel giovane pittore giramondo, senza una meta e senza un piano, era sulla carta uno dei personaggi in realtà più superficiali e meno accattivanti che un film potesse avere. Di Caprio, armato di quel ciuffetto che di lì a poco invase ogni edicola e televisione, fu Jack, lo fece diventare un simbolo di avventura, spensieratezza. Oggi lo guardiamo come eroe non tanto di un microcosmo sociale, quella terza classe che Cameron indicava come l’unica capace di solidarietà e dignità, ma proprio di un’età, di quei vent’anni che De Gregori ci ricordava sembrano davvero pochi, poi ci si volta a guardarli e non li si vede più. Lui, il primo vero lolito della storia del cinema, indicò la strada del rifiuto della vita borghese alla futura Generazione Erasmus. Dietro quegli occhi azzurri con cui seduce la bella e tristissima Rose, si nascondeva il simbolo di quella libertà totale, scevra dei dettami della società, che a più di cent’anni da quel naufragio ogni ventenne insegue.
Kate Winslet bisogna ammettere che fece scomparire parte dei difetti della sceneggiatura, che ci spingeva ad odiare in modo semplicistico l’alta società che accettava di fare morire il resto del popolo, quello condannato nel momento in cui la superbia umana su quella gigantesca mostruosità d’acciaio e legno si spezzava contro la natura.Rose, personaggio portatore di un’emancipazione femminile straordinaria, mille volte più pura e reale di quella della bolsa cinematografia odierna, rinuncia volontariamente alla salvezza per amore e per coerenza. La Winslet creò insieme a quell’attore, con cui tutti da decenni la vorremmo vedere sposata, non tanto una sorta di Romeo e Giulietta moderni, ma la negazione di una scelta che per secoli aveva costretto le donne ad essere fattrici, oggetti da esibire o picchiare. Qualcosa che però il grande pubblico non colse, non abbastanza almeno. Era troppo occupato a sospirare mentre lui la ritraeva in un nudo non tanto artistico, ad asciugarsi le lacrime di commozione, a piangere la sorte dei due tristi amanti condannati sul mare gelato da quella dannata tavola, su cui tutti sappiamo che ci potevano stare benissimo entrambi.