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Può un rifacimento essere migliore dell’originale? Basterebbe il Johnny Cash delle American Recordings, quello delle cover acustiche dei Depeche Mode, dei Nine Inch Nails o di Sting, a rispondere che sì, rifare qualcosa meglio di quanto abbia fatto il suo inventore è possibile. A patto, va da sé, di saperne cogliere l’essenza e di rivestirla con la propria sensibilità, con la propria visione del mondo. A patto di avere il talento debordante di Johnny Cash (e di Rick Rubin, nel caso di quei dischi).
Accostare Cash al team di Ea Motive sarebbe un’ipotesi campata per aria, ma dire che il nuovo Dead Space firmato dalla software house canadese (altrimenti nota come Motive Studio) distilli ed esalti il bello del gioco che nel 2008 diventò il paradigma dei survival horror spaziali, è, dopo averli giocati entrambi, parere ben più solido.
Senza panegirici, il suo remake supera Dead Space. E il perché è presto spiegato, che poi sia facile metterlo in pratica è ben altra cosa: Motive Studio deve avere amato e quindi esplorato così tanto la perla di Glen Schofield e della sua (fu) Visceral Games da scovarne, in profondità, l’anima, le caratteristiche più distintive, l’unicità essenziale. Quindi, depurandolo da qualsiasi cosa funzionasse poco, ha reso più visibile il capolavoro, via dai fronzoli e da certe legnosità di allora.
Così facendo, pur nel ricalco, il nuovo Dead Space non è la copia pedissequa dell’originale, magari con qualche prodigio visivo in più, concesso dai quindici anni di evoluzioni tecnologiche accumulatisi (e dalla completa riscrittura sul motore di gioco Frostbite). Tutt’altro: Dead Space è prima un lavoro di sottrazione, una riduzione al midollo, quindi di amplificazione. È la concretizzazione della memoria di Dead Space, cioè di quanto di più bello ci si ricordasse dell’originale. Corrispondesse al vero o no il ricordo, poco importa. Oggi esiste, è qui e si può giocare su qualsiasi piattaforma (Pc, Playstation 5 e Xbox Serie X/S, da 59,99 euro).
È come un rapporto di coppia perfetto, in cui ogni amante migliora nell’incontro con l’altro. Oppure, non se la prendano i fan, è il concetto opposto alla pantagruelica riproduzione di Final Fantasy VII, che in ogni aspetto moltiplica, del noto, tutto. Cioè, insieme, il bello e il brutto.