mercoledì, Marzo 22, 2023

Google, i licenziamenti rivelano il lato spietato del colosso

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In occasione della quotazione in borsa della società, nel 2004 i fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin parteciparono a una serie di incontri in diverse città americane, che presero una piega comicamente passivo-aggressiva. Accantonarono i completi in favore di un abbigliamento casual, si rifiutarono di rispondere a molte domande dei pezzi grossi della finanza e avvertirono gli investitori che, invece di concentrarsi sui profitti, la nuova società avrebbe potuto utilizzare le proprie risorse “per migliorare una serie di problemi del mondo“. I fondatori temevano le restrizioni imposte a una società quotata e giurarono che Google non avrebbe mai assecondato Wall Street. Per poterlo fare, Page e Brin strutturarono l’azienda in modo da controllare la maggioranza delle azioni con diritto di voto. Invece di restituire denaro agli azionisti, Google coccolava i talenti alla base delle sue innovazioni, offrendo al personale benefit come massaggi, cibo gratis e compensi sontuosi. Alla fine del 2010, per esempio, Page e Brin lasciarono di stucco i dipendenti annunciando un aumento generalizzato degli stipendi del 10 per cento , il raddoppio del già consistente bonus annuale e un regalo di Natale da mille dollari. I beneficiari avevano già stipendi al top del mercato, a cui si aggiungevano redditizie quote azionarie. La generosità dei fondatori, tuttavia, era la dimostrazione che i due erano sinceri quando sottolineavano che i dipendenti di Google erano il cuore dell’azienda.

Licenziamenti e tagli

Anche se da anni Brin e Page sono poco coinvolti nelle attività di Google, nei 25 anni di storia della società la tendenza a sfidare le convenzioni è sempre rimasta accentuata. Almeno fino a questo mese, quando la società madre di Google, Alphabet, ha licenziato 12mila dipendenti, circa il 6 per cento della sua forza lavoro, tra cui molti alti dirigenti e alcune delle persone assunte quando l’azienda era agli inizi. Per una società famosa per coccolare i suoi lavoratori, i licenziamenti hanno rappresentato un vero e proprio shock. Soprattutto perché alcune delle persone interessate sono state liquidate con freddezza, ritrovandosi l’accesso all’email aziendale bloccato prima ancora di poter salutare i colleghi.

Alphabet non è l’unica azienda ad aver licenziato molti dei propri dipendenti negli ultimi tempi. I vertici di Meta, Microsoft, Amazon, Salesforce e altri ancora stanno facendo la stessa cosa: cercano di mettere una pezza a quello che improvvisamente percepiscono come un numero di dipendenti eccessivo tagliando il personale. Il messaggio diffuso dall’attuale amministratore delegato del colosso, Sundar Pichai, era simile alle altre comunicazioni aziendali viste in questo periodo; l’impressione è che le società tecnologiche che hanno deciso di ridurre il numero di dipendenti le abbiano redatte fornendo una consegna identica a ChatGpt: “Purtroppo nel periodo in cui stavamo facendo soldi a palate durante la pandemia sono stato troppo ottimista sul fronte delle assunzioni, quindi adesso alcuni di voi dovranno andarsene. Ma questo è solo un contrattempo nel nostro percorso. Non vedo l’ora di vedere cosa avrà in serbo il futuro di questa società, di cui alcuni di voi però non potranno far parte!”.

Quello che sta succedendo ad Alphabet però è diverso. Ad eccezione di qualche centinaio di addetti alle vendite nel 2009, l’azienda non era mai ricorsa a un licenziamento di massa. A questo vanno aggiunti i segnali che indicano che l’era dei benefit illimitati è finita (tra le persone lasciate a casa ci sono anche 27 massaggiatori). Non che l’azienda sia in pericolo dal punto di vista finanziario: nonostante il rallentamento della crescita e il calo delle azioni – che di recente ha coinvolto qualsiasi società tecnologica –  Alphabet infatti continua a incassare molto. Nell’ultimo trimestre, l’azienda ha ottenuto profitti per 14 miliardi di dollari e ha 116 miliardi di dollari in cassa; negli ultimi anni, poi, ha speso oltre 100 miliardi di dollari per riacquistare le proprie azioni, un’operazione che piace molto a Wall Street ma che non è di alcuna utilità all’azienda.

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