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È un esercizio difficile, ancora di più se parliamo degli U2. Gli U2 sono per definizione una band elettrica. Sono sorti dalle ceneri del punk, genere per eccellenza carico di rumore, e il loro suono, sin dagli inizi, è stato caratterizzato dal suono della chitarra elettrica, dai delay e poi dalla infinite guitar di The Edge, dal basso di Adam Clayton, dalla batteria marziale di Larry Mullen Jr. La dimensione acustica non è mai stata il cuore delle loro esibizioni. Nei concerti è stata spesso un apostrofo rosa tra due atti del concerto, un paio di canzoni, arrangiate molto semplicemente, Per gli U2, più che per altre band, suonare in acustico è un rischio, un depotenziamento, una safety car che ferma una macchina che va a 300 all’ora e la costringe a rallentare.
Rimangono le canzoni. E le loro sono grandi canzoni
Che cosa rimane allora, degli U2? Nei nuovi arrangiamenti, spesso scarni, le melodie escono pulite, arrivano comunque dritte a noi. Questo è solo un altro modo di ascoltare queste canzoni. In fondo gli U2 hanno sempre cambiato i loro pezzi durante i concerti. Hanno sempre cambiato, anche con ironia, i testi. Hanno sempre aggiunto snippet, code, introduzioni. E, una volta a casa, dopo quei concerti, abbiamo sempre cercato le registrazioni per riascoltarci quelle canzoni che, in qualche modo, erano nuove. Siamo stati colpiti al cuore da quell’esecuzione di Sunday Bloody Sunday, solo voce e chitarra, a Sarajevo, e da All I Want Is You, allo stesso modo, a Sanremo, E da quella versione di One, più lenta, solenne, orchestrale, cantata al Pavarotti & Friends insieme a Brian Eno. E ancora, quanto abbiamo amato quella Every Breaking Wave intima, acustica, solo voce e piano degli Mtv Awards e negli ultimi tour? Ci è rimasta dentro così tanto da credere che l’originale fosse quella.