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Ciò che era il primo film qui si ramifica, diventa più grande, un kolossal postmoderno che mira a proporci un dilemma esistenziale sull’uomo in quanto essere dotato di volontà. E di tale questione è depositario e giudice lui, il Merovingio di Lambert Wilson, con quel nome che rimanda ai Re Fannulloni di Francia, uno dei personaggi più sottovalutati del cinema di quegli anni. Irritante, narcisista, codardo, eppure anche depositario di una conoscenza sterminata su ciò che siamo nel profondo: animali coperti di zucchero, come teorizzato da Alan Moore. Ma esiste davvero questa libertà che agogniamo? Esiste anche al di fuori di Matrix, oppure avremo solo un’altra gabbia costruita per fermare ogni possibile variazione dalla linea principale?
Non era una domanda casuale perché attraverso di essa, The Matrix Reloaded metteva in scena la metamorfosi della società occidentale, il suo connettersi ad una tecnocrazia che oggi sappiamo essere assolutamente dittatoriale. Neo va in cerca della verità, ma la verità non è quella che pensa, perché prima di lui ci sono stati altri Eletti, altre Gerusalemme ed altre apocalissi, fa parte di un ciclo di morte e rinascita creato dal proprio nemico. Egli è la variante che va domata dalla meccanica perfezione che di un mondo, in cui le Wachowski traslavano la nostra civiltà che dall’analogico diventava digitale. In quel dialogo finale con l’Architetto, odiato da alcuni senza motivo, vi è la perfetta contrapposizione tra il XX secolo degli ideali, dell’uomo, e il mondo che conosciamo ora, in cui l’individualismo è la maschera dietro cui si nasconde l’omologazione più terrificante. Vi è il nostro venire intesi come algoritmi, comportamenti da calcolare, possibilità che sono circoli viziosi del nostro vivere. Aprite Tik Tok, guardate cosa vi suggerisce Google, che musica dovreste ascoltare e come rientrate nel pubblico orientato di Netflix. Matrix ha vinto e non abbiamo nessun Neo a salvarci.
Temi e significati oltre un’estetica ipertrofica
The Matrix Reloaded ci ricordò un aspetto fondamentale: siamo stati noi stessi a creare la nostra prigione, a decidere che il nostro modo di vivere, diventasse la negazione degli stessi ideali che avevano sancito l’inizio della vita sociale. Ma in mezzo a tutto questo, il film non si dimenticava di essere intrattenimento, il che poi se ci pensiamo bene, anche a fronte dell’ultimo, irriverente capitolo, può portarsi via tutti i ragionamenti e le elucubrazioni. Perché parliamo pure di monumento agli hacker, di narrativa e mitologia, dell’identità libera e della caverna di Platone: quando si analizza la trilogia fantascientifica simbolo della generazione millennial, si parla di spettacolarità tellurica. Matrix, come ricordato dalla Wachowski, quasi a desacralizzare la loro creatura, è una grande storia d’amore tra Neo e Trinity, e come tale prevede avversari, prove da superare, nemici e anche l’esemplificazione di un sentimento avvolto nell’epica. E quindi via con gli straordinari inseguimenti, combattimenti che elevavano l’eredità del cinema orientale, con i supereroi che vivevano in Neo prima dell’era MCU. Abbiamo glorificato Mad Mad: Fury Road per la sua magnificenza adrenalinica, e allora perché non The Matrix Reloaded?
Ma se invece il gigantesco spettacolo fosse stato il vero contenuto di Matrix? La realtà è che probabilmente vent’anni, nel mondo post 11 settembre, il cyberpunk era finito perché quel futuro era stato raggiunto. Ecco il perché del superamento, anche stilistico, di quel sottogenere fantascientifico di cui questa trilogia rappresenta l’apice, e allo stesso tempo un canto di morte.
The Matrix Reloaded è un gigantesco labirinto di contrapposizione manichea ma non per questo priva di sfumature, anzi. Vi si celebra la ritrosi all’omologazione, a cui Hugo Weaving si presta con un personaggio, il redivivo Agente Smith, che è anche metafora del virus informatico.
The Matrix Reloaded, al netto dei voli da Superman di Keanu Reeves, delle sparatorie sull’autostrada, dei gemelli diversi, scazzottate di massa e e di una Monica Bellucci cringe, è stato soprattutto l’eco di una guerra che si stava combattendo sul serio. Quella guerra però l’abbiamo infine smessa di combattere, riguardava la possibilità che abbiamo di non essere appendici di un gigantesco alveare che ci priva dell’autoderminazione. Quella che il Morpheus di un carismatico Laurence Fishburne, avrebbe ricordato alla platea in festa, nella polis visionaria a metà tra antica Babilonia ed il futuro fluido ed inclusivo. Si perché anche questo anticipò Matrix.
E Neo? Neo si trova ad essere divino, ma la concezione che ha di sé cambia, fino a quel finale in cui viene privato della sua sensazione di identità unica. Non esiste più il messia, almeno fino a quando non opera una scelta diversa da quella più comoda, più facile, si rivendica la coerenza dei sentimenti rispetto alla meccanica del collettivo. A distanza di vent’anni, si può certamente dire che The Matrix Reloaded non sia magari stato all’altezza del primo, non poteva esserlo, non poteva superarne l’impatto culturale, anche storico, creatosi in virtù di un una concomitanza di situazioni irripetibili. Rimane però un film ancora oggi sottovalutato da chi si ferma a storcere il naso alla sua estetica grandiosa, quasi glamour. Questo film rappresenta forse più di ogni altro capitolo della saga, la perfetta mediazione tra intrattenimento e contenuto, profondità e perfezione estetica per il grande pubblico. Il suo anticipare il trionfo sempre più poderoso della narrazione videoludica a più livelli, il suo scontro titanico tra corpi e traiettorie ha saputo in realtà darci molto più di quanto a suo tempo abbiamo percepito.