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Il gene del worldbuilding è stato spesso dominante a spese di un’altra caratteristica con cui invece riesce a convivere senza contraddizioni nella letteratura tolkeniana: l’afflato epico. Oggi, epico è sinonimo di di grande o grandioso, e facilmente si definisce come epica una saga fantasty perché strabordante su molteplici volumi, o perché racconta – in termini prosaici o meno – un conflitto tra eserciti, dèi o grandi maghi.
Una visione nuova, senza dimenticare il passato
Ma le minuzie del worldbuilding, dei sistemi magici, delle motivazioni e del background dei personaggi, non sono sempre compatibili con l’epica che era presente in Tolkien, ove il racconto esplicito e, certo, finanche minuzioso (soprattutto nella fascinazione per il quotidiano degli hobbit e per le tappe del loro viaggio), trovava un contraltare nel non-detto dei miti e delle fiabe, reso a sua volta possibile dall’ampio ricorso agli archetipi delle grandi saghe leggendarie. Così gli elfi, Aragorn, gli stregoni buoni e cattivi, non avevano bisogno di vedere i propri poteri o il proprio addestramento elencati nel dettaglio per affermarsi come paragoni di potere, di regalità, di bontà o malvagità.
Quel che è certo è che il genere fantasy, in tutti i suoi media, è andato oltre Tolkien. L’evoluzione principale riguarda il superamento del manicheismo – la visione di un male assoluto contrapposta al bene senza macchia. C’è ancora, in quasi tutti i romanzi e le trame fantasy, un grande avversario da sconfiggere. Ma ci sono anche più sfaccettature, più chiaroscuri, più dilemmi etici per gli eroi o giustificazioni morali per i cattivi – se non la rimozione quasi totale di una distinzione tra gli uni e gli altri. I libri di Joe Abercrombie o di Mark Lawrence, ad esempio, sono affollati di antieroi che assurgono a riluttanti protagonisti di imprese straordinarie ma non necessariamente positive.
Anche elfi, nani e orchi sono meno onnipervasivi nella narrazione fantasy, a volte per semplice stanchezza dovuta al sovraffollamento degli anni ‘70 e ‘80 (e ’90…), a volte perché sostituiti da altre razze originali inventate dai nuovi autori, e infine, sempre più spesso, per un’esplicita volontà di andare oltre quelli che vengono identificati come stereotipi razziali. Così anche un caposaldo come Dungeons & Dragons, che fonda in modo indissolubile la propria identità con la presenza di razze direttamente ispirate a quelle classiche tolkeniane (e altre che si sono aggiunte nei decenni), sta compiendo un’attenta inversione di marcia (piuttosto difficile da compiere senza passare con le ruote sui piedi dei fan) per ridurre le differenze tra le une e le altre, ed eliminare il più possibile il concetto di specie inerentemente malvagie.
Altre evoluzioni sono un naturale frutto dei tempi, dal ruolo delle donne come protagoniste sino alla diversity e ai temi Lgbtq+, portati avanti da autori pionieri e seminali come Ursula K. Le Guin o contemporanei come Tamsyn Muir.
Sono passati 50 anni dalla morte di J.R.R. Tolkien. Tra libri, film, videogiochi e giochi, il fantasy è diventato una componente centrale della cultura pop. L’eredità del suo capostipite è ancora onnipervasiva. Diversa, sì; mutata in certe componenti essenziali; ancora irraggiungibile in altre. Ma viva e vitale, più che mai.