Bentrovati cari lettori di LinkinMovies.it. Vediamo la fine, ormai la Mostra del Cinema 2023 sta volgendo al termine. Rammarico per la fine dell’esperienza? Sempre un po’. Tristezza? No, quella no perché siamo certi di vederci nuovamente qui l’anno prossimo e in altri festival lungo al stagione. Gioia perché è finita? Quando finisce una manifestazione che conferma e accende una propria grande passione, la gioia non c’è mai. I sentimenti, pertanto, si affastellano nell’animo con la loro incisività, ma dobbiamo guardare a questi giorni, poi il fine settimana raccoglierà queste emozioni.Il Lido dal canto suo, è un po’ più svuotato. La percezione di questa mancanza non si ha il pomeriggio, quando il pubblico della Mostra e anche i residenti di questa zona arrivano tra il Casinò e l’Hotel Excelsior, ma la mattina e soprattutto la sera. La mattina i vaporetti (sì, prendiamo il vaporetto perché vivere al Lido è sempre più difficile, economicamente parlando) sono sempre meno assiepati di accreditati in confronto al fine settimana e questa mattina è sembrato essere tornati a una settimana fa, all’inizio della manifestazione. La Mostra, infatti, come tutti i festival di cinema svolti su dieci giorni, è una parabola di presenze che comincia piano, raggiunge il suo picco tra sabato e lunedì e poi si spegne inesorabile. Sabato 9 settembre, l’ultimo giorno, quando andremo in giro per il Lido per capire quali attori, registi, film potranno ricevere un premio, saremo solo noi e pochi altri. Il sabato conclusivo è anche un ottimo momento per recuperare alcune visioni, quelle poche repliche che ci sono, o anche per infilarsi in sala e recuperare qualche Classico.
A proposito di Venezia Classici (il concorso che mostra la storia del cinema che si divide nella sottosezione “restauri” e “documentari”), oggi qui è stato proiettato il film di Yasujiro Ozu, C’era una padre, titolo originale Chichi ariki. Ve lo segnaliamo per mettervi al corrente anche di una notizia appresa dall’edizione quotidiana di Ciak in Mostra-VeneziaNews. La Tucker a partire da dicembre 2024 (non sappiamo se sia un refuso o se davvero dobbiamo aspettare più di un anno) propone nei cinema undici film del maestro Ozu: Tarda primavera (1949); Viaggio a Tokyo (1953); Fiori d’equinozio (1958); Buon giorno (1959); Tardo autunno (1960); Il gusto del sakè (1962); Gallina nel vento (1948); Inizio d’estate (1951); Il sapore del riso al tè verde (1952); Inizio di primavera (1956); Tokyo Twilight(1957). Tutti i film sono stati restaurati e sono proposti in occasione dei 120 anni dalla nascita di Ozu (che nacque nel 1903, quindi speriamo che quel “2024” sia solo un macroscopico refuso). Lodevole e bellissima iniziativa per la casa di distribuzione legata al Far East Film Festival che così riporta la storia del cinema al cinema.
Ma torniamo alla Mostra. Oggi vi parliamo di due film tra quelli visti, uno del concorso e l’altro si inserisce nella sezione “Scoperte dal Lido”. Partiamo con Io Capitanodi cui vi riportiamo anche alcune dichiarazioni rilasciate in conferenza stampa dal regista Matteo Garrone.
E il cinema? Eccolo! L’abbiamo detto più volte che Matteo Garrone è un cantore di fiabe. Le sue storie al cinema sono delle narrazioni fiabesche in cui guardare la realtà odierna nella chiave spesso più cruda. Sono fiabe nere, taglienti, immerse nella violenza e nella prevaricazione che il regista romano non ha paura a filmarle. La sua macchina da presa non si è mai fermata di fronte a nessuna scena cruenta, alla tensione, alla manifestazione di quella sopraffazione e sadismo umano. Primo amore, L’imbalsamatore, Gomorra e Dogman ne sono chiari esempi, ma ci mettiamo anche Il racconto dei raccontie soprattutto Pinocchio, film che portano sulla scena queste caratteristiche in una veste leggermente meno cruenta. A questa caratteristica narrativa si associa la capacità di Garrone di trasportare lo spettatore dentro il mondo che sta filmando, soprattutto se è un mondo criminale come in Gomorra o la psiche di un essere umano come in Primo amore. La camera a mano, l’attenzione alla lingua, i primissimi piani, gli stacchi sulla realtà circostante intesa come la cornice e anche il limite entro cui si esprime la forza distruttiva dell’uomo, questi sono gli elementi linguistici che immergono lo spettatore nei suoi film. Io Capitano si inserisce perfettamente in questa descrizione e nella scia dei film precedenti. L’evento al centro della pellicola è drammatico, la migrazione di due giovani di 16 anni dal Senegal attraverso l’Africa, il deserto, e poi l’Europa, l’Italia. Il punto di vista è quindi dall’Africa, dalla nascita del viaggio, nei sogni e nel desiderio dei due protagonisti di realizzare ciò in cui credono, andare via dal Senegal. Attenzione però, Garrone non racconta la disperazione della fuga dalla povertà o dalla guerra, ma un desiderio di realizzare ciò in cui credono ardentemente, nonostante il parere contrario della madre di uno dei due, conscia del fatto che il viaggio è di morte e di tortura.
I due cugini, però, lo affrontano con grande disillusione, quasi gioia, complicità. Poi arriva il deserto, cimitero di morti tanto quanto il Mediterraneo e la realtà sbatte in faccia ai protagonisti. Il sogno diviene un calvario di stenti, camminate, sole, privazioni, rapine e torture, seppur Io Capitano non sia solo questo. Il merito, infatti, del film – e del regista – è di alternare l’umanità, il supporto, l’aiuto alla tortura più efferata; la possibilità e la volontà di farcela che può avere solo un ragazzo adolescente è scandita nel montaggio con la sopraffazione e la violenza. E qui interviene, come in tutta la filmografia del regista romano, il suo occhio che non si ferma di fronte a nulla, nemmeno quando deve filmare il cruento, come i corpi morenti nel deserto, i centri di detenzione o le prigioni in Libia. Io Capitano, pertanto, è un’onda che tocca vette di crudeltà profonda, ma concede anche attimi di respiro in cui la vita e il desiderio ostinato si rimpossessano dei migranti e dei due protagonisti. In questa curva drammatica, il giovane protagonista cresce, prende consapevolezza di ciò che sta facendo, si emancipa dall’essere un ragazzino per giungere ad essere appunto un capitano; passa dal sorriso innocente, alle lacrime di disperazione e convinzione di essere un uomo e di avercela fatta. Il film è chiaro, non ha bisogno di molte spiegazioni e perché così impostato non soffre mai di cali di tensione. È diretto ed equilibrato, mai eccessivo nel dramma, né stucchevole nelle avversità. È la manifestazione evidente di un problema, è il racconto innovativo di un tema difficile da affrontare, è la dichiarazione di un regista di mostrare una realtà attraverso il pensiero. Durante la visione il pensiero primario è: «Mentre sto vedendo questo film, a poca distanza sta davvero accadendo tutto questo?». La risposta la conosciamo e ciò rende questo Io Capitano e in generale il cinema di Matteo Garrone, importante.
La voce della sala stampa. Dal momento che Io Capitano ci ha convinto, abbiamo seguito anche la conferenza stampa. In compagnia di Garrone c’erano i due attori Seydou Sarr e Moustapha Fall, uno degli sceneggiatori Massimo Gaudosio e Mamadou Kouassi sulla cui testimonianza di migrazione, avvenuta circa quindi anni fa, è basato il film. La sala stampa si è rivelata molto calorosa nei confronti del regista a gli ha dedicato un lungo applauso.Garrone ha affermato innanzitutto che la volontà di girare questo film nasce dall’abitudine a considerare i migranti come numeri, come entità che viaggiano e periscono, ma ci si dimentica che ci sono delle famiglie, dei desideri, dei sogni alle loro spalle. Quindi ha voluto puntare la macchina da presa dall’Africa verso l’Europa e soprattutto vivere insieme ai migranti questo viaggio, immergersi nel loro punto di vista, vedere che succede oltre al Mediterraneo, cercando di dare forma visiva a tutta quella parte di viaggio, il deserto, i campi di detenzione in Libia e il viaggio in mare che molto spesso non sono descritti. In particolare l’attenzione del regista è stata rivolta a raccontare una forma di migrazione poco considerata, ossia quella dei giovani che in Africa rappresentano il 70% della popolazione; tra loro c’è chi vuole venire in Europa per vivere una nuova forma di vita, scappando da una povertà dignitosa, solo per coronare un sogno. Questo tema, inoltre, ha proseguito Garrone, mette in evidenza una profonda ingiustizia che riguarda il fatto che i loro coetanei europei vanno in vacanza in Africa, mentre loro per fare il viaggio al contrario devono intraprendere un percorso di morte. Il regista è molto chiaro e sintetico nella spiegazione della sua opera. La definisce epica perché i giovani sono gli unici portatori di un’epica contemporanea fatta ditutti gli stati d’animo, di momenti di euforia e di disperazione. L’approccio al film è stato condotto insieme agli altri sceneggiatori e focalizzato sull’ascolto delle storie dei ragazzi che hanno vissuto quel viaggio, tra cui appunto Kouassi Mamadou, del motivo per cui si sono messi in marcia e le loro volontà future. Ne è uscito, ha continuato Garrone, un viaggio di formazione interiore in cui anche i sogni sono importanti perché raccontano i sensi di colpi del protagonista per aver abbandonato la madre. Il regista ha detto che Io Capitano ha il realismo di Gomorra e la fiaba di Pinocchio con cui ha trovato molte assonanze nel viaggio di crescita e formazione del burattino. Massimo Gaudosio, sceneggiatore, dal canto suo ha aggiunto che tutti loro sono rimasti colpiti dal modo chiaro in cui i testimoni intervistati raccontavano il loro viaggio e le loro parole erano molto toccanti. Il loro obiettivo era registrare le esperienze diverse che hanno un comune denominare nei sentimenti che vivono.Le parole di Kouassi sono state più politiche. Ha raccontato che quando ha deciso di affrontare il viaggio, insieme al cugino, dalla Costa d’Avorio all’Italia, aveva la voglia di scoprire l’Europa, una realtà nuova in cui c’è l’accesso al diritto, alla scuola, pur sapendo dei rischi. In molti hanno messo in guardia lui e il cugino sulla pericolosità del deserto, dei predoni, dei centri di detenzione libici e quindi hanno passato intere giornate a pensare e poi hanno comunque deciso di partire. Il discorso, poi, dell’uomo si è allargato alle responsabilità dell’Europa e dell’Italia che al posto di creare un canale di accesso sicuro, finanziano le attività criminali di Libia e Tunisia in cui non ci sono diritti dell’uomo.La conferenza stampa si è chiusa con un aneddoto divertente. Garrone ha affermato che non ha mai consegnato la sceneggiatura completa ai due giovani protagonisti, ma ogni giorno dava alla loro interprete le scene che lei gli raccontava come un cantastorie. La prima parte del film è stata girata nella medina di Dakar, poi la parte libica è stata ricostruita a Casablanca e le scene in mare di fronte a Marsala. Quando sono giunti in Sicilia, ha detto il regista, i due giovani hanno trascorso molto tempo a saggiare le comodità della vita occidentale, come la piscina e il cibo, perché non erano mai stati in Italia, anzi non erano mai usciti da Dakar, e non avevano mai provato un modo di vivere così pieno di lussi. Riportarli poi alla tensione del film è stata un’impresa.
Scoperte dal Lido. Abbiamo scoperto il regista giapponese Kyoshi Sugita che nel concorso delle Giornate degli Autori ha presentato il suo quarto lungometraggio Following the Sound (Kanata no uta, titolo giapponese). Facciamo un po’ fatica a raccontarvi la storia, perché non ci è del tutto chiara. Ci spieghiamo meglio. Haru lavora in una libreria e un giorno ferma in maniera del tutto casuale una donna, Yukiko, perché percepisce e vede in lei un dolore. Allo stesso modo e per lo stesso motivo ferma Tsuyoshi, un uomo che cova un malessere nella sua anima. La ragazza si insinua nelle loro vite in maniera rispettosa e delicata, fornendo a entrambi una possibilità di aiuto, un confronto, un supporto. Con la donna, inoltre, persegue la ricerca di un luogo da rintracciare, probabilmente legato alla madre di Haru scomparsa. Il tutto passa da una registrazione audio che le donne ascoltano in una musicassetta. Questa dovrebbe essere la storia, se non fosse che il catalogo delle Giornate degli Autori nella sinossi di questa pellicola riporta dei dettagli del film che non sono comprensibili nella visione. Ad esempio che il destino dei tre è legato da molto tempo, sin da quando Haru andava alla medie. Questo dettaglio temporale, però non emerge nel film, non se ne parla proprio. In ogni caso il vero valore di Following the Soundnon è tanto l’incastro narrativo, ma la percezione sensoriale. L’udito, la visione, il suono sono totalmente coinvolti, azzardiamo anche l’olfatto da intendersi come un completamento dei primi due. Le voci dei protagonisti sono sibiliate, rispettose, calibrate nei suoni emessi, come anche i loro movimenti, il suono della natura, del fiume, come elemento naturale di raccordo tra le vicende di Haru e Yukiko e del cibo. L’atto del mangiare è un momento essenziale nella condivisione dei protagonisti, è un istante di confronto e supporto reciproco che il registra inquadra con attenzione e registra con estrema dovizia anche nel suono (e qui subentra la percezione dell’olfatto). Questo carattere estremamente sensoriale del film, lo rende delicato e intimo. La macchina da presa è fissa a inquadrare e quando si muove è dolce e mai invasiva. Following the Sound, pertanto, è più un film da percepire che da comprendere. In quest’ottica la storia, passa in secondo piano, perché è privilegiato l’aspetto di umanità, di condivisione che si suggella nell’inquadratura finale in primissimo piano.
Bene, siamo giunti alla conclusione. Domani, venerdì 7 settembre, terzultimo giorno di Mostra del Cinema, sarà l’ultimo delle nostre cronache nel formato finora visto, ma vi spieghiamo tutto domani. A domani!
Crediti fotografici. Foto 1, Io Capitano (Me Captain) – Seydou Sarr and Khady Sy Foto 3, Io Capitano (Me Captain) – Official still (credits foto di Greta de Lazzaris) (2) Foto 4, Io Capitano (Me Captain) – Official still (credits foto di Greta de Lazzaris) (3) Foto 5, Following the sound – Official still (2)