domenica, Ottobre 6, 2024

Clima, non siamo sulla buona strada per rispettare l'accordo di Parigi

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Quando nel 2015 i 195 Paesi riunitisi per la Cop21, la conferenza del clima delle Nazioni Unite, in Francia sottoscrissero l’Accordo di Parigi – tutt’ora il principale trattato internazionale per la riduzione di emissioni di gas serra – fu stabilita anche la necessità di fissare degli step intermedi nei quali fare il punto della situazione e correggere il tiro, qualora si fosse reso necessario. Quel momento è arrivato, ed è coinciso con la pubblicazione del rapporto Technical dialogue of the first global stocktake pubblicato dalla United Nations framework convention on climate change (Unfccc), il gruppo che funge guardiano per conto dell’Onu sulle interferenze antropiche dannose per il clima globale. Secondo gli esperti “la finestra di opportunità per garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti si sta rapidamente chiudendo”.

Il bilancio, che si tiene ogni cinque anni, è iniziato con una fase di raccolta dati nel 2021, analizzando un’ampia gamma di input provenienti da organismi internazionali e parti interessate. Tra il 2022 e il 2023 si è svolto in tre incontri un dialogo tecnico presieduto da due co-facilitatori voluti dalla segreteria delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Farhan Akhtar e Harald Winkler, nominati rispettivamente dai Paesi sviluppati e da quelli in via di sviluppo. Il Global Stocktake riassume 17 risultati chiave delle deliberazioni tecniche di questi colloqui sullo stato di attuazione dell’Accordo di Parigi e sui suoi obiettivi a lungo termine: il testo impegnava tutti i Paesi a limitare l’aumento della temperatura il più vicino possibile a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, ed è emerso che in tutti gli ambiti, dalla mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici alla gestione delle perdite e dei danni, “c’è ancora molto da fare”.

Cosa c’è ancora da fare

A differenza di altri rapporti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che hanno lo scopo di essere informativi ed evitano di fornire raccomandazioni politiche, questo bilancio è esplicitamente teso a spronare i Paesi ad agire. Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, ha esortato i governi a “studiare attentamente i risultati del rapporto e, in ultima analisi, a comprendere cosa significa per loro e l’azione ambiziosa che devono intraprendere in seguito”. L’opportunità di riflettere su quanto emerso si presenterà presto: tra novembre e dicembre si terrà la Cop28 di Dubai, organizzata tra lo scetticismo generale dell’aver scelto come Paese ospitante gli Emirati Arabi Uniti, che basano la propria economia sull’esportazione di petrolio.

Sultan Ahmed Al Jaber, il controverso presidente designato della conferenza sul clima ormai alle porte, ha già fatto suoi alcuni spunti contenuti nel Global Stocktake, sottolineando ad esempio la necessità di ridurre le emissioni del 43% entro il 2030. Tra le sue raccomandazioni, il rapporto chiede senza mezzi termini “l’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili” e una “decarbonizzazione radicale di tutti i settori dell’economia”, oltre allo stop alla deforestazione entro la fine del decennio con conseguente inversione di tendenza. Secondo la valutazione, sarebbero necessarie più di 20 gigatonnellate di ulteriori riduzioni di CO2 in questo decennio – e l’azzeramento globale delle emissioni nette entro il 2050 – per raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015.

Un approccio globalizzato

Carbone, petrolio e gas naturale devono quindi scomparire, un concetto che viene ribadito con una nettezza linguistica non propria delle risoluzioni usuali sul clima: nelle precedenti conferenze infatti i Paesi si sono spesso battuti su ogni parola che riguardasse i combustibili fossili, spesso accordandosi su espressioni annacquate come “transizione energetica”. L’Unfccc si aspetta una produzione del 99% dell’elettricità a zero emissioni entro metà secolo: questo sarà possibile solo se ci sarà una inversione di rotta degli investimenti pubblici, ad oggi ancora destina miliardi di dollari ogni anno alle lobby del fossile, e se si affronterà la vicenda rifondando l’architettura finanziaria internazionale costruita nello scorso secolo.

All’inizio di questo mese, un rappresentante delle Nazioni Unite per il clima ha ribadito in occasione del primo vertice africano sul clima l’appello rivolto alle nazioni più ricche affinché mantengano la loro promessa di destinare 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi più poveri per contribuire ad affrontare il cambiamento climatico. Un approccio globalizzato rappresenta la sola via per superare la minaccia comune, ma nel 2020 sono stati concessi a queste nazioni “solo” 83 miliardi di dollari in finanziamenti per l’ambiente, sì in aumento del 4% rispetto all’anno precedente ma ancora al di sotto dell’obiettivo fissato dagli accordi presi alla Cop15 di Copenaghen del 2009.

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