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Nel Nagorno Karabakh, anzi in Artsakh, rischia di consumarsi una pulizia etnica ai danni di circa 120mila persone di etnia armena che da sempre vivono su quei monti del Caucaso. Di fatto, stiamo assistendo – con un’accelerazione in fondo prevedibile dopo 9 mesi di isolamento dell’exclave dell’Armenia in territorio dell’Azerbaijan imposto proprio da Baku con il beneplacito dei presunti peacekeeper russi – ai preparativi per un esodo di massa dalle terre che dai monti Mrav scendono verso il confine con l’Iran. Una delle tante vergogne pressoché silenziose che puntellano il pianeta, “effetti collaterali” del grande gioco geopolitico che intreccia energia, sicurezza e contraccolpi di teatri bellici ben più estesi, come quello ucraino.
La storia
L’Artsakh nacque nel 1991, una delle infinite conseguenze del collasso dell’Unione Sovietica: dopo la prima guerra con l’Azerbaijan scoppiata nel 1992 e conclusa nel 1994, la situazione della repubblica indipendentista mai riconosciuta da alcuno stato Onu è rimasta cristallizzata fino al 2020, quando un secondo conflitto ha portato il paese per cui costituisce una enclave, appunto l’Azerbaijan, a riconquistare sette storici distretti e stringere d’assedio un territorio a quel punto assai ridotto, il cui capoluogo è Stepanakert.
La mossa esiziale è arrivata lo scorso febbraio, quando il cosiddetto corridoio di Laçın – un collegamento che consentiva all’Artsakh di ricevere rifornimenti e merci dalla madrepatria armena – è stato bloccato dall’esercito azero e da presunti “attivisti ambientalisti”. Era l’antipasto agli attacchi degli ultimi due giorni a colpi di artiglieria pesante che hanno causato almeno 200 morti e oltre 400 feriti e condotto alla sostanziale resa delle autorità locali: gli accordi prevedono lo scioglimento delle milizie dell’Artsakh, la consegna delle armi e l’assimilazione della popolazione che teme invece ritorsioni di ogni tipo. “Gli azeri ci considerano animali. Ci hanno lasciato senza cibo in una prigione a cielo aperto per nove mesi, non mi aspetto nulla di umano da loro” dice una cittadina in un reportage pubblicato su Repubblica. Così quasi tutti si stanno preparando a un trasferimento di massa e infine ad abbandonare la propria casa. In molti si sono rifugiati nei pressi delle basi russe.
Tutto questo è accaduto nel sostanziale silenzio dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e delle organizzazioni internazionali, anche in virtù della storica vicinanza russa all’Armenia. Rapporto che però Mosca ha di fatto tradito per avvicinarsi al più redditizio Azerbaijan. Ci sono stati piccoli gesti simbolici nei confronti dell’Armenia – amministrata dal 2018 dall’ex giornalista Nikol Pashinyan che certo non si è distinto per efficaci strategie in politica estera e oggi è infatti contestato dalla popolazione a Yerevan – ma la questione fondamentale è l’evoluzione di Baku.
Energie fossili
Negli ultimi trent’anni, come spiega un’ottima sintesi della situazione di qualche mese fa su Pagine Esteri, l’Azerbaijan è diventato una potenza regionale di medio livello con importanti mire espansionistiche e forze armate in fase di ammodernamento. Grazie al sostegno della Turchia, ai rapporti riallacciati con Israele – che avrebbe fornito alcuni dei droni utilizzati contro l’Artsakh – e ovviamente alle notevoli risorse energetiche. Su tutte il petrolio – ha una capacità di 1,2 milioni di barili al giorno, pari a più dell’1% delle forniture globali di petrolio – e il gas naturale. L’Azerbaijan è dunque una potenza fossile: non si può toccare specialmente in una fase di bando delle forniture russe. E nessuno ha in effetti avuto nulla da eccepire nella tragedia di questi giorni, neanche nella ricerca di una soluzione che consentisse un epilogo più ordinato. D’altronde appena nel luglio 2022 l’Unione Europea ha stretto un imponente accordo con il presidente Ilham Aliyev, al potere dal 2003 e succeduto al padre Heydar, che a sua volta comandò dal 1993.