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Quando Ronin uscì, esattamente 25 anni fa, fu accolto senza grande entusiasmo da parte della critica, che lo giudicò di base un titolo minore, accattivante ma poco più. Ci volle del tempo perché ci si rendesse conto di quanto questo film avesse cambiato il genere action, ponendo le basi per un rinnovamento che poi sarebbe stato protagonista del cinema del XXI secolo. Ma non è il solo motivo per il quale il film di Frankenheimer è probabilmente il miglior film di quel genere donatoci dagli anni ’90.
Un gruppo di sopravvissuti nella Parigi di fine secolo
Ronin arrivò nel decennio in cui il film d’azione toccavano l’apice assoluto. Questo in virtù non solo del contributo dato da grandi autori e attori, o per le sceneggiature di grande caratura.
Le possibilità offerte all’epoca dalle major, che ancora lasciavano spazio all’autorità, alla volontà di sperimentare e andare oltre l’ovvio, erano grandi. Fu nella contaminazione di genere, nell’ibridazione narrativa ed estetica lontana dai cliché hollywoodiani, che il cinema di quegli anni offrì il meglio di sé. In tale panorama questo film, uscito esattamente 25 anni fa, firmato da John Frankenheimer, può rivendicare il titolo di apice assoluto. Di quel periodo cinematografico rappresenta anche il più fulgido esempio di capacità di convogliare al suo interno sia la scuola europea (francese, con il suo noir in particolar modo), sia il meglio del thriller d’autore d’Oltreoceano. La sua semantica, la sua stessa identità, è talmente complessa e sfaccettata, che ancora oggi molti si chiedono se si possa semplicemente considerare un film d’azione e basta. Come spesso accade a film così atipici, Ronin all’epoca fu accolto in modo benevolo ma non particolarmente entusiasta da parte della critica; solo con il tempo la sua complessità e il suo rappresentare appieno anche il mondo post Guerra Fredda è stato riconosciuto. Perché, ed è questo il punto, Frankenheimer ha cercato di parlarci anche della fine di un mondo, dei dubbi e delle incognite che all’epoca molti nutrivano verso il futuro, verso il XXI secolo, dell’eredità di quel decennio per molti indefinito.
Ronin ha una regia elegantissima e allo stesso tempo scevra da ogni artificio, che ci guidava dentro un bar parigino, dove vi sono cinque mercenari, tutti ex dei servizi segreti, ora freelance, o meglio Ronin, samurai senza padrone. Questa definizione è il vero filo conduttore del film. Di fatto quegli uomini sono sopravvissuti a sé stessi, ad un mondo che non esiste più, così come la loro giovinezza. Sono stati reclutati da una misteriosa donna, affinché si impadroniscano di una valigetta in mano al crimine organizzato. Il contenuto non ci verrà mai rivelato da Frankenheimer, che ci presenta ogni membro della squadra, le sue abilità, le sue criticità, omaggiando la capitale francese con uno sguardo scevro da ogni cliché. Ronin è pervaso dall’inizio alla fine da una sensazione di decadenza, morte, la verità appare sfuggirci, soprattutto quella che riguarda i personaggi, interpretati da un cast che definire di lusso è anche riduttivo. Stellan Skarsgard, Sean Bean, Michael Lonsdale, Jonathan Pryce, Skipp Sudduth, ruotano attorno a loro due: Robert De Niro e Jean Reno. Un americano e un francese, accomunati da un codice d’onore improntato sulla lealtà, l’efficienza e, paradossalmente, il non fidarsi di niente e di nessuno. In loro Frankenheimer crea uno straordinario omaggio all’amicizia virile, quella che era stata immaginata da Sergio Leone, Brian De Palma, Michael Winner, William Friedkin e Michael Curtiz. Non esiste più l’URSS e la libertà come paravento, ora dominano mafie, oligarchi, terroristi avidi e traditori.
Un film rivoluzionario, connesso alla fine di un’epoca
Ronin fu uno degli ultimi film d’azione in cui gli effetti digitali furono messi da parte, secondo la formula di Walter Hill per cui “gli scherzi sono divertenti, ma i proiettili sono veri”. Frankenheimer crea inseguimenti e sparatorie seguendo un realismo di raffigurazione e realizzazione coerente con il suo percorso di regista. Qualcosa che poi sarebbe stato ripreso dalla saga di Jason Bourne di Greengrass, semanticamente ed esteticamente erede di questo film, fatto di tradimenti, doppi giochi, false piste e mezze verità, ma soprattutto della desacralizzazione della spia come eroe. Ronin è un mix tra spy story e thriller, western urbano, noir, con cui Frankenheimer a tratti strizza l’occhio anche a Jean Pierre Melville, ma soprattutto a Peckinpah e Kurosawa, i loro “Mucchi Selvaggi” di sacrificabili fatti di cinismo e malinconia. Non un caso che la sceneggiatura porti la firma di un grandissimo come David Mamet, esperto di criminali e sconfitti. Ronin ha un iter narrativo in cui luce ed ombra si scambiano di posto in continuazione, in cui l’intreccio cattura la nostra attenzione a dispetto delle poche informazioni in possesso, grazie ad un world building in costante divenire. Vanta alcune delle scene d’azione meglio congegnate e girate del genere, proprio perché realistiche in toto, con buona pace di Mission Impossible, e di un mito come quello di 007, con i suoi eroi perfettamente pettinati e super acrobatici. Si sarebbe dovuto aspettare Gareth Evans con The Raid, così come la saga di John Wick, per vedere qualcosa in grado di muoversi con pari potenza innovatrice, per quanto più estetica e di recupero che di rottura.
Ronin infine ci svela come il Sam di Robert De Niro in realtà sia un agente della Cia, mandato per fermare il tentativo degli ultimi residui dell’IRA bellicosa di fermare il processo di pace in Irlanda. In questo il film prende una svolta decisiva, parlandoci della fine del terrorismo politico, del Regno unito che sta per siglare la fine di un terrore decennale. Con un linguaggio cinematografico in perenne accelerazione e mutamento, Frankenheimer ci prende per mano, ci guida dentro un perenne inseguimento dove il finale è amaro, distante dal romanticismo e dall’happy end banale americano, così come fedele ad una visione di solitudine assoluta per i suoi protagonisti. Ronin, uomini onda, termine dell’antico Giappone, il mito dei 49 samurai senza padrone che vendicarono il loro signore, diventati poi divinità per il popolo giapponese, è parallelismo dell’Occidente in cerca di un’ideale, di un senso, di una fine che abbia un senso. Il futuro tecnocratico è alle porte, da lì a tre anni verrà iniziato dal crollo delle Torri Gemelle. Sam e gli altri sono vittime sperdute in una società che non capiscono, che cambia troppo in fretta, di fronte alla quale non sono minimamente preparati. Ronin è il film di una sconfitta, generazionale, storica, metaforicamente rappresentata da un action che per significati e raffinatezza supera anche ciò che McTiernan, Woo, Bay o Besson avevano saputo creare. Ecco perché definire Ronin il miglior action degli anni 90, è tutto tranne che sbagliato: ha segnato la fine di un’era e l’inizio di un’altra.