venerdì, Ottobre 11, 2024

Fusione nucleare, un nuovo modo per misurare l'energia prodotta

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Questo articolo è stato pubblicato da questo sito

Questo articolo è frutto di una collaborazione con Gea – Green Economy Agency

Quando, quasi vent’anni fa, il professor Giuseppe Gorini entra nell’ufficio di Igor Chugonov, a San Pietroburgo, si trova di fronte un uomo di bassa statura, capelli bianchi, occhiali grandi. Fuma di continuo. Sono entrambi fisici affermati ed esperti nel campo della misurazione dei neutroni. Da dietro la sua scrivania lo scienziato russo apre un cassetto e ne estrae un oggetto di circa 40 centimetri, racchiuso in un bussolotto. È, tecnicamente, un filtro a idruro di litio, con ogni probabilità un avanzo della ricerca atomica sovietica. Un materiale che può servire a costruire una bomba H (all’idrogeno). Oppure, a misurare i raggi gamma nelle reazioni di fusione nucleare.

È per questo secondo scopo che Giuseppe Gorini lo vuole acquistare, per conto del progetto di ricerca a cui sta lavorando. È il primo passo che porterà il team di ricercatori dell’università di Milano-Bicocca, insieme all’Istituto per la scienza e la tecnologia dei plasmi del Cnr, a sviluppare un nuovo metodo per misurare la potenza emessa dai processi di fusione nucleare controllata. Ora gli scienziati milanesi sono in grado di osservare la “luce dei nuclei”, cioè la radiazione che nasce dal cuore del reattore. Un passo fondamentale nel lungo percorso che dovrebbe portarci al traguardo della prima centrale elettrica dimostrativa a fusione nucleare dopo il 2050. Prima dimostrando che dalla fusione nucleare si può ottenere più energia rispetto a quella immessa nel reattore, poi costruendo un prototipo di centrale elettrica a fusione.

Sì, perché la fusione nucleare promette davvero di cambiare le regole del gioco nel campo della sostenibilità. Una fonte di energia pulita, senza emissioni di CO2. Con un combustibile che deriva da un composto semplicissimo da reperire: l’acqua. Un processo sicuro, capace di auto-spegnersi in caso di anomalie. E senza produzione di scorie radioattive a lungo tempo di decadimento come avviene nel caso della “sorella”, e più nota, fissione nucleare.

È Proxima Fusion, spin out del Max Planck tedesco: con due italiani tra i cofondatori e un altro nel team di startup punta a realizzare una centrale a fusione prima nel suo genere entro il 2030

L’energia delle stelle

Nei reattori delle attuali centrali a energia nucleare nel mondo, che utilizzano la tecnologia della fissione, nuclei di uranio o plutonio vengono bombardati da neutroni: si dividono in atomi più piccoli e rilasciano energia. Si potrebbe dire che, invece, il processo di fusione lavori nella maniera opposta. All’interno di un reattore, deuterio e trizio (due isotopi dell’idrogeno, cioè atomi a cui vengono sottratti o aggiunti neutroni), vengono portati a fondersi in un unico nucleo, liberando una quantità di energia quattro volte maggiore.

È lo stesso processo che alimenta le stelle e fornisce energia all’universo. Ma il compito che nel Sole viene svolto dalla forza di gravità – cioè confinare la materia, che a temperature altissime tende a “scappare” in ogni direzione – nei reattori viene affidato a campi magnetici ad altissima intensità, che strizzano gli elementi fino a raggiungere circa 150 milioni di gradi. A queste temperature gli elettroni si separano dai loro nuclei, e la materia diventa un plasma – una sorta di gas di cariche elettriche, definito a volte come il “quarto stato della materia” – nel quale si possono generare le reazioni di fusione.

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